Dwight White, Ernie Holmes, Joe Greene, L.C. Greenwood: sono loro, da sinistra a destra, nella foto qui accanto. Sono loro la “Steel Curtain”, la “cortina d’acciaio” dei Pittsburgh Steelers dominatori della NFL degli anni Settanta, la più forte “front line” difensiva della storia del football. Li avevo citati “en passant” qualche post fa, davvero troppo poco per questo quartetto diabolico. Schierati da Chuck Noll con la formazione 4-3 (quattro defensive linemen e tre linebacker), oggi poco usata a beneficio della più versatile 3-4, Greene e Holmes erano i tackle, i perni centrali del quartetto, con White e Greenwood ai lati, come defensive end.
Il quartetto completo giocò insieme dal 1972 al ’77, anno in cui Holmes abbandonò gli Steelers per i New England Patriots. La Steel Curtain propriamente detta vinse i Superbowl del 1975 e ’76 ma, eccezion fatta per Greene, gli altri tre membri furono protagonisti di altri due trionfi consecutivi, nel 1979 e nell’80. Il loro soprannome nacque nel 1971 dalla fantasia di un ascoltatore di una radio di Pittsburgh, Gregory Kronz, ispirato dalla celebre definizione di “Iron Curtain” (“cortina di ferro”) data dal Primo Ministro inglese, Winston Churchill, alla separazione delle due aree d’influenza (sovietica e alleata) applicata in Europa al termine della Seconda Guerra Mondiale.
L’anno d’oro di questo irripetibile quartetto di campioni è il 1976 quando, dopo una brutta partenza stagionale con 4 sconfitte nelle prime 5 gare e la perdita per infortunio del qb titolare Terry Bradshaw, la difesa, guidata dalla Steel Curtain, si carica letteralmente sulle spalle l’intera squadra, conducendola fino al titolo e facendo segnare dei numeri ineguagliabili. Nelle nove partite seguenti, la difesa degli Steelers terrà addirittura a zero gli avversari in cinque occasioni, concedendo nelle altre quattro gare la miseria di due touchdown e cinque field goal, per una media di punti concessi di 3,1 a partita! Nei playoff la musica cambierà di poco, con gli Steelers capace di limitare a 10 punti realizzati gli attacchi dei Baltimore Colts e degli Oakland Raiders; nel Superbowl i Dallas Cowboys arriveranno in vantaggio 10-7 all’inizio dell’ultimo quarto di gioco, prima di subire la rimonta di Pittsburgh, coronata dalla celebre ricezione di 64 yard del futuro “Hall of Famer” Lynn Swann (giocata che gli varrà il premio di MVP della partita), con il successo finale per 21 a 17.
A proposito di Hall of Fame, alla guida di quella squadra (e degli Steelers dal 1969 al 1991) c’era un coach leggendario di questo sport, Chuck Noll, tuttora detentore del record di Superbowl vinti per un allenatore (4) ed entrato con voto plebiscitario nella Hall of Fame nel 1993. La chiave dei suoi successi? Un fiuto straordinario nello scegliere i giocatori universitari al draft, una dote che gli consentirà di riempire di campioni il roster della sua squadra: nei primi tre anni sceglie Joe Greene (il più forte, individualmente, della Steel Curtain), seguito da Terry Bradshaw e Franco Harris, tutti futuri Hall of Famer. L’annata record, ineguagliata ancora oggi, è però quella del 1974, nel cui draft Noll sceglie, nei primi cinque giri, ben quattro futuri Hall of Famer: i ricevitori Swann e Stallworth, il linebacker Lambert e il leggendario centro Mike Webster. Un intuito e una competenza ai limiti della capacità divinatoria.
Tornando alla Steel Curtain, Joe Greene (193 cm per 125 kg di peso forma, l’unico ancora vivo dei quattro) è quello che raccoglierà più onori: 4 titoli, 10 Pro Bowl, Hall of Famer, Rookie dell’anno 1969, 2 volte miglior difensore e il suo numero 75 ritirato dagli Steelers. L.C. Greenwood (#68, 198 cm per 111 kg), a dispetto dei 4 titoli vinti e dei 6 Pro Bowl giocati, sarà due volte finalista per la Hall of Fame, senza però mai riuscire ad entrarvi: Greenwood viene ricordato anche per le scarpe dorate con cui giocava. La stessa esclusione dalla Hall of Fame toccherà ai suoi compagni Ernie Holmes (#63) e Dwight White (#78). Holmes, morto in un incidente d’auto nel 2008, era celebre per il suo carattere focoso e selvaggio, carattere che gli provocò non pochi problemi, dentro e soprattutto fuori dal campo: finì su tutte le prime pagine dell’epoca la sparatoria che lo vide coinvolto nel ’73, quando Holmes cercò di abbattere a colpi di fucile un elicottero della polizia che lo inseguiva per eccesso di velocità (!!). White, invece, deve il suo inquietante soprannome di “Mad Dog” (“cane rabbioso”) solo alla straordinaria intensità del suo gioco, che lo portò a realizzare 46 qb sack in 126 partite (anche se a quei tempi i sack non erano ancora una statistica ufficiale). Merita di essere ricordata la vicenda accadutagli alla vigilia del Superbowl del 1975, quando White trascorse una settimana in ospedale per curarsi la polmonite, perdendo oltre dieci chili. La sua partecipazione alla partita sembrava ovviamente fuori discussione, finché Chuck Noll non vide il suo giocatore presentarsi negli spogliatoi del Tulane Stadium di New Orleans, poche ore prima della partita. Dwight White quella partita la giocò e la giocò alla grande, segnando anche 2 punti con una safety (placcaggio del qb avversario nella sua end zone) nel secondo periodo di gioco. Quante storie dalla definizione di Sir Churchill, vero?
Sapevo dell’esistenza della “Cortina di ferro” che ha visto contrapporsi americani e sovietici per quasi 50 anni, ma non immaginavo potesse esistere una “Cortina d’acciaio”. Una linea difensiva veramente straordinaria, insuperabile. Grazie e buon lavoro.