
Da qualche settimana diversi lettori mi scrivono chiedendo come mai Sport One non stia raccontando, come sempre fatto negli ultimi sette anni, i playoff NHL o l’inizio della nuova stagione NFL o ancora le vicende della Major League Baseball. È colpa mia, lo confesso, e non per mancanza di tempo. Ma perché questo sport, tutto lo sport, riaperto a forza dopo la quarantena, così asettico e silenzioso, finto come le risate registrate delle sit-com anni ’80, proprio non riesce a farmi venire voglia di scriverne. Non che non ci abbia provato: ho visto i playoff NHL e sto vedendo le Stanley Cup finals tra Tampa e Dallas, ho visto diverse partite delle prime due giornate NFL e qualche match di MLB, ma solo per ritrovarmi ad osservare sconsolato le sagome di cartone sui sedili, i rumori da allenamento come se si giocasse nella palestra del liceo, lo sguardo triste di alcuni giocatori, che istintivamente si voltano verso le tribune solo per vederle sconfinatamente vuote. Si è scelto di ripartire per mere ragioni economiche, creando le mostruose “bolle” sanitarie in cui atleti e staff vivono separati dal mondo, col solo scopo di giocare per la tv, come fossero polli in batteria. Per non far saltare i contratti dei diritti tv e quelli delle sponsorizzazioni, per non far sprofondare definitivamente le casse dei club, per non far stare completamente fermi gli atleti e continuare a giustificarne gli stipendi. Per queste (ed altre) ragioni si è rimesso in piedi il baraccone dello sport mondiale, decorando gli spalti con effetti digitali stile Playstation, aggiungendo finti boati del pubblico ad esclusivo beneficio dei telespettatori, definendo “scoppiettante” un calciomercato calcistico con le pezze al culo, appeso ai prestiti e ai parametri zero; qualunque cosa pur di far andare avanti lo show. E pazienza se questa decisione ha generato mostri come i playoff dell’hockey su ghiaccio mentre fuori dalla “bolla” ci sono 40 gradi all’ombra o le inquadrature più strette possibile della NFL, per evitare di ricordare a tutti il deserto che circonda i giocatori. Solo negli Usa i morti totali da Covid-19 sono sulla soglia dei 200 mila, ma la paura più grande sembra essere quella che la Stanley Cup o il Vince Lombardi Trophy non vengano assegnati. E noi non siamo da meno, vista la solerzia con cui si è fatto riprendere un campionato che andava chiuso a marzo, e non finito con una bulimia inguardabile di partite ogni due
giorni. Ebbene, i dirigenti degli sport che raccontiamo hanno fatto la loro scelta, cari lettori, quindi consentitemi di fare la mia, scegliendo di non raccontare questo show con la pistola puntata alla tempia. Lo sport è fatto per regalare emozioni, ed una parte fondamentale di questo regalo è fatta dal pubblico. Come una sorta di rito laico, lo sport si nutre di chi è lì a vederlo, dei suoi boati e dei suoi fischi, dei colori delle bandiere, delle lacrime di gioia o di delusione, degli striscioni strafottenti tra tifoserie, di quell’enorme flusso emotivo che dagli spalti sommerge il campo e da lì buca i teleschermi per coinvolgere anche chi è sul divano. È per quel pubblico che conta anche il “come” si gioca, e non soltanto il risultato, come si ostinano a sostenere gli allenatori scarsi. È davanti a quel pubblico che si capisce chi è un campione vero e chi non lo sarà mai, chi sarà in grado di reggere la pressione e chi invece ne verrà travolto. Ora, nel silenzio tanto necessario quanto assordante di questi mesi, non c’è nulla di tutto questo da raccontare, se non una sfilza di risultati che non rendono neppure merito alla fatica degli atleti che li ottengono. Come si potrà festeggiare una coppa o un titolo con quasi un milione di morti nel mondo, con economie sul lastrico e una recessione globale di portata inimmaginabile? Sarebbe stato meglio fermarsi un po’ di più, sarebbe stato meglio rispettare con un po’ più di silenzio l’assenza di chi è morto, il dolore di chi ha perso e il sacrificio di chi ha lottato.
Ci tengo a sottolineare che questa posizione è assolutamente personale, e che non vuole minimamente sminuire l’impagabile lavoro che in questi mesi sta continuando a svolgere per il blog Andrea La Rosa sulla Formula 1 a lui tanto cara. Senza i suoi appassionati e puntuali post Sport One si sarebbe fermato, e così non è stato, anche se purtroppo la Ferrari non sta ripagando in alcun modo i suoi sforzi. Quanto a me, continuerò a scrivere certo, innanzitutto completando la ricostruzione storica della Generazione di Fenomeni della pallavolo italiana a 30 anni dal primo dei tre titoli mondiali consecutivi. Ma per l’attualità concedetemi altro tempo, in attesa che stadi e palasport tornino a vibrare come un tempo che oggi pare lontanissimo ma che in realtà dista solo sei mesi. Per citare il sergente Lorusso di Mediterraneo: “avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice”. Saluti.

