Per sempre Tuono

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Addio a Gigi Riva, nato in provincia di Varese ma sardo d’adozione scrivendo la storia del Cagliari e non solo, un emigrato al contrario, suo ancora oggi il record di gol con la maglia della nazionale.

Se il dio del calcio fosse disponibile a materializzarsi, siamo certi riscriverebbe queste prime settimane del nuovo anno che, in un solo colpo, hanno portato via Mario Zagallo, Franz Beckenbauer e ieri sera, come un fulmine a ciel sereno, il nostro Gigi Riva, uno dei calciatori italiani più forti di tutti i tempi, icona di quando valevano soprattutto l’amore per la maglia, le scelte di cuore e l’attaccamento al territorio, al di sopra di ogni tentazione economica.
Riva nacque sulle rive del lago Maggiore da una famiglia tutt’altro che benestante, la madre casalinga mentre il padre artigiano, a causa di un’incidente sul lavoro, perse la vita quando Gigi non era nemmeno un ragazzino.
Da lì una difficile infanzia, i collegi lontano da casa ed il calcio come valvola di sfogo e opportunità di riscatto sociale, dove l’incrocio perfetto avvenne quando lavorava per una ditta che produceva ascensori gestita da un dirigente del Legnano che, notandolo nei tornei giovanili, decise di inserirlo nel calcio di terza serie proprio con la squadra lombarda, con cui realizzò a 18 anni ben sei gol in ventitre presenze, in un calcio dove evidentemente, si utilizzava tutt’altro che il fioretto.
Poi ci sono treni che passano, circostanze allineate e occasioni che sembrano realizzarsi sotto un preciso disegno.
È il caso del Cagliari che in quegli anni, per limitare le spese dovute al numero di viaggi, spesso giocava due partite in casa e altrettante in trasferta, di conseguenza, quando stava lontano dalla Sardegna, la base era proprio Legnano dove fu notato e strappato alla concorrenza per trentasette milioni di lire, al ribasso rispetto ai cinquanta offerti dal Bologna ma evidentemente, visto il proseguire dell’incredibile storia, così doveva andare.
Già, perché Riva insieme al Cagliari raggiunsero sportivamente qualcosa d’impensabile, dal 1965 al 1974 ben 164 gol in 315 presenze, dalla serie B allo storico scudetto del 1970 che rappresentò il punto più alto per lo stesso Riva, icona mediatica e sociale, divenuto simbolo della capacità di vincere nonostante le risorse economiche non fossero quelle delle corazzate settentrionali, inevitabili le sirene, soprattutto della Juventus che nel luglio 1973 propose un’offerta irrinunciabile: due miliardi di lire e sei giocatori tra questi Gentile, Bettega e Cuccureddu.
Dichiarò lo stesso Riva in un’intervista: “Quando Arrica, il mio presidente, scoprì che non andavo, non fu contento per niente. Ma non sono testone, io ero una persona chiusa, avevo avuto un’infanzia tragica, i miei genitori erano mancati presto. Poi sono venuto a Cagliari e abbiamo costruito una gran bella cosa, lo scudetto era il sogno di ogni squadra. La Sardegna mi aveva già conquistato, quando vedevo la gente che partiva alle 8 da Sassari e alle 11 lo stadio era già pieno, capivo che per i sardi il calcio era tutto.

Ci chiamavano pecorai e banditi in tutta Italia e io mi arrabbiavo. I banditi facevano i banditi per fame, perché allora c’era tanta fame, come oggi purtroppo. Il Cagliari era tutto per tutti e io capii che non potevo togliere le uniche gioie ai pastori. Sarebbe stata una vigliaccata andare via, malgrado tutti i soldi della Juve. Dopo ogni partita spuntava Allodi che mi diceva ‘Telefoniamo a Boniperti?’. Ma io non ho mai avuto il minimo dubbio e non mi sono mai pentito.”
Anche in quel caso, prevalse la lealtà sulla tentazione finanziaria.
Da qui la scelta di giocare unicamente col Cagliari, nonostante infortuni che limitarono successi come nell’anno dopo lo scudetto, quando in nazionale contro l’Austria rimediò la frattura del perone dopo un intervento falloso dell’austriaco Hof, e nel 1976 uno strappo muscolare all’adduttore in un contrasto col difensore milanista Bet che si aggiunse ad un fisico che andava avanti con gli anni, abbandonando il calcio solamente a 32 anni consapevole di avere dato tutto.
“Rombo di tuono”, così soprannominato da Gianni Brera per la potenza del tiro e la prolificità, fu protagonista (e non poteva essere altrimenti) anche con la Nazionale, affermandosi tra gli attaccanti più prolifici della sua generazione, record di reti (35 in 42 presenze dal 1965 al 1974) ancora imbattuto.
Si laureò campione d’Europa nel 1968 giocando la ripetizione della finale contro la Jugoslavia, si presentò due anni dopo con l’invidiabile score di 19 gol in 16 partite segnando anche nella partita del secolo vinta contro la Germania, purtroppo perdendo contro il Brasile di Pele, ma ricordiamo sempre, quella fu un Italia letteralmente sfinita dalla precedente battaglia sportiva contro i tedeschi, tanto che lo sport e gli almanacchi, ricordano più quel 4-3 in semifinale che il mondiale vinto dal Brasile.
Nel 1999 la rivista specializzata World Soccer gli riconobbe un posto nella classifica dei migliori calciatori del Novecento, inserito anche nella Hall of Fame del calcio italiano.
Una vita nel calcio, perché appese le scarpe al chiodo, continuo la sua carriera come dirigente sempre nella società cagliaritana, nel 1987 ritornò in nazionale dapprima come dirigente di raccordo con la Federazione, poi come dirigente accompagnatore e team manager, ruolo che ha ricoperto fino al 2013, partecipando al trionfo di Berlino 2006, come alle grandi amarezze di Usa 1994 e degli europei persi in finale nel 2000 e 2012 contro Francia e Spagna.
Eroe in un mondo difficile, esempio di coraggio e dedizione, lealtà e vita, diversamente da quei calciatori che si vendono al migliore offerente, da campione non ha mai tradito la Sardegna e i sardi dimostrando loro amore e attaccamento, fedele alla sua maglia, alla terra e a chi non smetterà mai di amarlo.

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Andrea La Rosa

2 commenti

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  • Grazie per questo bel ricordo della vita di un campione da me molto amato in gioventù. Altri tempi, altri uomini, quando i valori non erano inquinati dai guadagni stratosferici dei calciatori di oggi.

Andrea La Rosa

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