Attraversiamo l’Atlantico e andiamo a vedere nel dettaglio i cosiddetti “campionati chiusi” made in Usa. Gli ultimi 20 Superbowl del campionato di football NFL hanno visto qualcosa come 12 vincitori diversi, con i soli New England Patriots capaci di toccare il 20%, grazie a 4 successi (compreso quello del 2015). Per arrivare solo al 60% di titoli bisogna mettere insieme le vittorie di 5 squadre, visto che con le migliori 3 si arriverebbe solo al 40%…
Passando al baseball della Major League, le cose cambiano poco: gli Yankees sono in cima col 25% (5 titoli degli ultimi 20), seguiti da Boston e San Francisco, entrambe col 15%. Ne consegue che le 3 migliori della classe si siano aggiudicate il 55% dei titoli a disposizione, mentre i 20 successi sono sparsi tra 10 franchigie diverse.
Il basket NBA è quello con i numeri più vicini all’Europa, con “solo” 8 squadre vincenti in 20 anni. L.A. Lakers e San Antonio Spurs hanno il 25% di titoli cadauna (5 su 20), con Chicago e Miami ferme al 15%, con i 3 titoli arrivati con Jordan e James. Le prime 3 franchigie, quindi, vantano il 65% dei titoli.
Infine, l’hockey NHL, un altro paradiso dell’incertezza come la NFL, dove i 20 titoli assegnati dal ’94 al 2014 (escluso il 2005 causa lockout) sono sparsi tra 12 squadre, con i soli Detroit Red Wings capaci ci collezionarne 4 (20%). Sommando ancora una volta le prime tre della classe (Detroit, Colorado e New Jersey) si ottiene un misero 45%, mentre per arrivare a cifre “europee” bisognerebbe mettere insieme i titoli delle prime 7 squadre…
Eccoci dunque alla scoperta del bluff del calcio europeo. Che senso ha, per i grandi sponsor, investire sempre più soldi in tornei così prevedibili, più simili al gioco delle tre carte che a una reale competizione alla pari? Che interesse possono avere i tifosi delle altre, sapendo di dover sperare, numeri alla mano, in un autentico miracolo? Come possono crescere di valore i diritti tv, visto che di fatto il broadcaster di turno sa di pagare per una decina di partite di reale importanza, immerse in una marea di gare di nessun interesse?
Ora che abbiamo “visto” il bluff, resta da chiedersi: con quali misure si potrebbe invertire la tendenza e riportare così un po’ di incertezza nei nostri ormai prevedibilissimi campionati, in primis nella nostra Serie A? L’introduzione del draft va eliminata subito dal tavolo, perché presuppone un sistema-Paese completamente diverso dal nostro, in cui le università si occupino di allevare, oltre che i migliori cervelli, anche i migliori talenti sportivi. Il salary cap è una sorta di versione 5.0 di quel pasticcio preistorico che è il fair play finanziario introdotto dall’UEFA nel 2009, ma per renderlo effettivamente valido bisognerebbe introdurlo nello stesso momento e con gli stessi parametri in tutta Europa, cosa a dir poco utopistica per un continente che impiega decenni anche solo per stabilire le quote di produzione del latte.
L’unica leva su cui agire con efficacia per poter riequilibrare un po’ la situazione è la ripartizione dei diritti televisivi, la voce più ricca tra quelle in entrata nei bilanci del calcio, affidata alla legge Melandri-Gentiloni del 2008. Secondo la sua struttura attuale, in sintesi, il 40% viene diviso in parti uguali tra tutta la Serie A, il 30% viene distribuito proporzionalmente secondo i risultati e il restante 30% sempre proporzionalmente sulla base del numero dei tifosi e dei residenti delle rispettive città. Cosa succederebbe se queste due ultime voci fossero invece distribuite in modo inversamente proporzionale? Chi è già forte prendererebbe meno soldi di tutti, mentre le ultime della classe e le neopromosse riceverebbero i mezzi economici per attrezzare squadre competitive, magari creando un gruppo in grado di aprire un ciclo e crescere fino ai massimi livelli. E si aiuterebbero realmente le squadre dei piccoli centri (vedi Carpi, Sassuolo e Frosinone), visto che le grandi, avendo stadi più capienti e maggiori bacini di utenza, hanno margini di incassi e sponsorizzazioni molto più alti.
A monte di tutto, comunque, bisognerebbe ridurre il numero delle squadre, perché nel nostro Paese, soprattutto in questo momento storico-economico, non esistono 20 club con i mezzi economici in grado di costruire, senza rischi di eccessivo indebitamento, una squadra competitiva ai massimi livelli. Tutto ciò, naturalmente, a patto di voler mantenere l’attuale sistema “aperto” di competizione, e non voler invece creare una serie “A1” italiana, a numero chiuso, con cui realizzare un prodotto sportivo davvero appassionante, incerto ed equilibrato. Quest’ultima soluzione diventerebbe certamente un passo politico, prima ancora che di organizzazione sportiva, ma certo è che continuare a insistere, con le regole attuali, su questa Serie A (ma vale anche per gli altri Paesi succitati) è un’ipocrisia destinata solo ad allargare a dismisura la forbice tra club molto ricchi e club molto poveri. Con tutto ciò che ne consegue, sportivamente ed economicamente.