Parli di guerra a Dzeko e cambia espressione del volto, lui che ha vissuto il più lungo assedio nella storia moderna, quello di Sarajevo (5 aprile 1992 – 29 febbraio 1996).
La famiglia Dzeko rimase a Sarajevo, nonostante l’assedio, nel quartiere Otoka, dai nonni: in 13 in una casa di 40 metri quadri, è il primo giugno del 1993, a Dobrinja, un quartiere nella parte ovest di Sarajevo: due granate colpiscono proprio un campetto dove si stava svolgendo un improvvisato torneo giovanile: 13 morti, 133 feriti. Dzeko vuole giocare con gli amici ma la madre gli vieta di uscire, pochi minuti dopo, una granata colpisce il luogo dove avrebbe dovuto incontrare i suoi compagni. La madre gli ha donato una seconda vita.
È il 1996 e il gigante buono entra nelle giovanili dello Zeljeznicar, la squadra dei ferrovieri: grazie al padre Midhat, ex calciatore con un passato nella seconda divisione jugoslava, a 10 anni è già molto alto per l’età, è uno dei migliori per dedizione e impegno, ma non sembra uno dei più talentuosi. Nella squadra dei ferrovieri, Dzeko gioca da attaccante, con buoni risultati, ma nel passaggio al professionismo perde sicurezza. Lo trasformano in centrocampista offensivo: dribbling discreto, buona progressione, piedi buoni ma non troppo, e incredibilmente anche difficoltà nel colpo di testa. Esordisce da professionista a 17 anni, e in due stagioni segna poco.
Per i tifosi, Edin diventa ben presto “kloc”, il lampione: un giovane molto alto e non troppo dotato. Ma per fortuna il giovane allenatore ceco Jirí Plísek non ascolta le critiche: in appena 4 mesi allo Zeljeznicar riesce a capire quello che in 10 anni nessun bosniaco aveva intuito. Se in Bosnia non sapevano cosa farsene, Plísek aveva già in mente un progetto per Dzeko: da centrocampista offensivo a “target striker”, centravanti fisico che aiuta la squadra.
Plìsek ha deciso di portare Edin in una squadra di seconda divisione ceca, l’Ustí nad Labem, e inizia la grande trasformazione: gioca da punta centrale, a vent’anni ha segnato 9 gol nella sua prima vera stagione da attaccante.
Nella seconda stagione al Teplice la conferma: segna 13 reti, ormai è un attaccante vero.
«Darei tutti i miei trofei per portare la Bosnia ai Mondiali!», diceva poco tempo prima di qualificarsi a quelli brasiliani del 2014.
Da quell’esordio contro la Turchia è diventato rapidamente un simbolo della sua Nazionale, di cui è anche capitano: 74 presenze complessive e ben 44 gol.
La sorte finalmente smette di girare le spalle alla Nazionale bosniaca: nel gruppo di qualificazione ai Mondiali del 2014 la rivale più pericolosa è la Grecia. Nello scontro diretto ci pensa ancora lui con una doppietta, ma si arriva fino all’ultima giornata a pari punti: la vittoria in Lituania classifica la Bosnia come prima del girone G, di cui Edin è ovviamente il capocannoniere con 10 reti. Ormai è il personaggio pubblico più apprezzato in Bosnia.
L’immagine che ha costruito in patria, di uomo modesto ma vincente, di persona che aiuta sempre il prossimo in difficoltà, di ragazzo di quartiere che non se n’è andato neppure durante la guerra, lo rende popolarissimo, non esiste in Bosnia una persona con maggior carisma e popolarità trasversale, con una storia così dolorosa ma di successo, e ammirata anche all’estero, la sua immagine è finanche troppo perfetta: e anche in campo, a volte, il “tranquillone” perde le staffe e si ricorda di essere un giocatore ambizioso, duro, furbo. Ecco perché Dzeko è così amato dai suoi compagni: se scoppia una rissa è il primo che ti difende. E fa paura.
In Germania Magath ha bisogno di un attaccante fisico e decide di acquistare Dzeko per 4 milioni di euro. Edin inizia alla grande con 5 gol e 3 assist nelle prime undici partite, ma poi si spegne un po’, come tutta la squadra: concluderà con 8 gol e 7 assist, contribuendo in modo decisivo al quinto posto dei lupi tedeschi.
Nella stagione seguente succedono due cose che cambiano radicalmente la storia di Dzeko e del Wolfsburg, il gioco del Wolfsburg cambia: spesso si compatta in un 4-4-2 in cui gli esterni hanno il compito di crossare anche dalla trequarti; Misimovic deve servire sempre il passaggio in profondità verso le punte. È così che Dzeko segna 25 gol nelle 27 partite successive (più 10 assist), circa il 20% di testa. Quasi tutti sono preceduti da cross dalle fasce o da verticalizzazioni in zona centrale. Il suo compagno di reparto approfitta in pieno degli spazi che un attaccante così forte fisicamente riesce a creare: Grafite segna 28 gol e vince la classifica dei cannonieri, anche perché è il rigorista della squadra (ben 8 rigori realizzati). La coppia d’attacco Dzeko-Grafite diventa la più prolifica nella storia del campionato (superando quella formata da Gerd Müller-Uli Hoeness) e il Wolfsburg vince per la prima e unica volta la Bundesliga.
DZEKO HA TROVATO LA SUA POSIZIONE!!!
Oltre all’aspetto tattico, però, c’è anche quello umano: Edin ha trovato in Misimovic un riferimento dal punto di vista umano, una persona che conosce bene la Germania e può aiutarlo, ma anche un compagno di Nazionale e un bosniaco come lui (sebbene nato a Monaco di Baviera), per stare insieme e non sentire la mancanza di casa. Dzeko sembra di ghiaccio, ma è un sentimentale: si racconta che nei primi mesi in Repubblica Ceca passasse gran parte del tempo al telefono con la sua famiglia.
Magath se ne va, il Wolfsburg non si rafforza e non regge l’impegno della Champions League: la squadra va male, ma l’unico che continua a giocare bene è proprio Dzeko, che diventa capocannoniere con 22 gol. Nonostante le richieste dei più grandi club d’Europa, il Wolfsburg non vuole cederlo e gli affida anche la fascia da capitano.