Si è spento Mario Zagallo, icona dello sport e del calcio soprattutto brasiliano, una vita intorno al pallone dentro una carriera ricchissima di trionfi prima come calciatore, poi allenatore della sua stessa nazionale e non solo. Una figura leggendaria che merita di essere ricordata.

Classe 1931, 169 cm per 61 kg.
Mario Zagallo, soprannominato “formichina” per il suo fisico esile, ha scritto pagine di successi del calcio brasiliano dapprima come calciatore, poi come allenatore, per ben cinque volte c.t. del Brasile in quarant’anni di carriera.
Dicevamo del Zagallo giocatore, legatissimo alla sua nazione, dove ha sempre giocato, dapprima facendosi conoscere giovanissimo nell’America-RJ, ma soprattutto nei successivi otto anni al Flamengo (217 partite e 30 reti) fino al 1958, da lì al Botafogo segnando 46 gol in 115 presenze, numeri importanti se contestualizziamo i campionati del tempo, che certamente non vivevano dei ritmi del calcio attuale, dove mediamente il calciatore di un top club può arrivare a disputare anche cinquanta partite l’anno. Figuriamoci farlo in Brasile, terra che, soprattutto in quei decenni, produceva talenti senza soluzione di continuità.
Idolo dei tifosi di quel Brasile campione del mondo 1958 e 1962, con un attaccamento viscerale tanto da ritirarsi dal calcio giocato quattro anni dopo, una volta saputo dell’esclusione dalla lista del Mondiale edizione 1966.
Ma lo sport inventa storie e incrocia destini davvero strani, così dopo aver cominciato la carriera di allenatore al Botafogo, ecco la chiamata della Federazione per diventare c.t. di quella nazionale che, solo pochi anni prima, l’aveva escluso.
Ahi noi, vinse il campionato del mondo 1970 nella famosissima finale dell’Azteca, ma quella, pur riconoscendo la superiorità degli avversari, fu anche un’Italia stanca dalla precedente partita del secolo, vinta stoicamente contro la Germania 4-3.
Poi tanta esperienza anche fuori da quei confini che non aveva mai superato, andando persino in Kuwait ed esplorando quei territori arabi del calcio, al tempo paragonabili all’impresa di Cristoforo Colombo, ancora club brasiliani e nuovamente la chiamata della sua nazionale durante gli anni ‘90, periodo in cui fu dapprima direttore tecnico col c.t. Parreira nella nostra amara finale di Pasadena, nuovamente a capo della nazionale in tempo per vincere la Coppa America del 1997.
Giungiamo così al 1998, ma soprattutto a quella finale di Parigi contro la Francia, schierando dall’inizio Ronaldo che poche ore prima, era stato male in albergo.
In molti, col senno del poi criticarono quella scelta, ma andavano valutati dei test, la volontà del calciatore, oltre la posizione mediatica del momento di una finale mondiale, contro la nazionale del Paese ospitante e col migliore calciatore al mondo in dubbio per problemi in quei momenti pochi chiari.
Lo stesso Ronaldo intervistato anni addietro, ha spiegato l’accaduto.
“Dopo pranzo ho deciso di andare in camera e riposarmi un po’, l’ultima cosa che ricordo è stata quando mi sono sdraiato sul letto. Dopo ho avuto terribili crampi e quando ho aperto gli occhi intorno a me c’erano compagni di squadra e il dottor Toledo. Nessuno voleva dirmi cosa stesse succedendo. Ho detto loro di lasciarmi in pace, di andare a parlare da un’altra parte e lasciarmi dormire. Leonardo poi mi ha invitato ad andare nel giardino dell’hotel e mi ha spiegato tutta la situazione. Mi hanno detto che sarebbe stato meglio non giocare la finale. Ho svolto tutti gli esami medici e non è emerso nulla, come se non fosse accaduto niente. Arrivato allo stadio, Zagallo ha detto che non avrei giocato la finale, ed ero nelle mani dei medici dove il dott. Toledo mi ha dato la luce verde per giocare.”
Sulla decisione di giocare la finale: “Arrivati allo stadio ho detto a Zagallo ‘Sto bene, ecco gli esiti degli esami, non c’è nulla, voglio giocare’. Non gli ho dato un’alternativa, non aveva altra scelta che lasciarmi giocare. E così è stato, stavo giocando, ma forse quello che mi era successo aveva scosso i miei compagni di squadra. Non è qualcosa che vedi tutti i giorni. In ogni caso avevo un dovere nei confronti del mio paese e non volevo perdermi la finale, sentivo di poter giocare, ovviamente non è stata una delle migliori partite della mia carriera, ma ero lì per adempiere al mio dovere”.
Quella sconfitta costò l’esonero a Zagallo; poi ancora qualche anno ad allenare club, il ritiro nel 2001 salvo ripensamento per l’ennesima chiamata del Brasile come coordinatore tecnico, ruolo concluso dopo il mondiale (stavolta a noi caro) del 2006.
“Mio grande amico, so che stai attraversando un momento difficile, ma da qui ti mando energia positiva! Presto sarai completamente ristabilito, con la stessa forza di sempre! Coraggio, vecchio lupo”, con queste parole nell’estate 2022, Pelè, compagno di mille battaglie, gli aveva inviato in messaggio di augurio alle prese con problemi di salute.
Una carriera sempre al massimo.
Se ne va l’ultimo degli undici brasiliani in campo nella finale del mondiale ’58, l’epilogo in vita di una formichina diventata Professore.

