È proprio vero: in questo Paese da operetta non si fa in tempo a parlar bene di qualcosa, o di qualcuno, che subito dopo arriva qualcun altro a romperti il giocattolo, a dirti che non era niente vero, che anzi quel tipo ha fatto danni incalcolabili e che andrebbe fermato immediatamente. E così, una volta di più, l’Italia arriva a ricordarci di essere tale anche nello sport, nella pallavolo per essere precisi, mettendo con le spalle al muro il ct della nazionale maschile, Mauro Berruto, e costringendolo alle dimissioni per essersi macchiato di una colpa indelebile: aver preteso il rispetto delle regole.
Inutile dilungarsi a raccontare da capo cos’è successo a Rio de Janeiro in occasione della recente Final Six di World League; se ne siete all’oscuro vi invitiamo a leggere questo post sull’argomento. La squadra reagisce alla grande alla cacciata di quattro titolari, tra cui il capitano, batte la Serbia e perde con molto onore contro i campioni del mondo della Polonia, lanciando almeno un paio di giovanissimi nomi nuovi sul panorama internazionale. Ma nasce tutto da lì, da Rio, come Berruto stesso conferma in un’intervista al Corriere della Sera che vi invitiamo a leggere perché molto più chiarificatrice di cento comunicati stampa. Prima si delega (e si paga) qualcuno per guidare un gruppo e stabilirne regole e comportamenti, poi non si sostengono le decisioni prese da costui di fronte a una chiara infrazione di tali regole, ammessa anche dai diretti interessati, e infine lo si lascia solo, senza difenderlo né con le parole né tanto meno coi fatti. La storia d’Italia è piena di vicende come queste, anche in ambiti (e con esiti) ben più drammatici delle dimissioni di un ct. Ma la tattica, ormai rodata da decenni, è sempre la stessa, e il principio è ormai chiaro: le regole, in un paese di furbi, sono aleatorie, teoriche, “negoziabili” per dirla con Berruto.
Nella chiusura del post sul suo sito personale con cui sancisce l’addio alla panchina azzurra, Berruto cita, forse involontariamente o forse no, quella definizione di “hombre vertical” tanto diffusa nei paesi sudamericani, e non a caso portata in Italia da Hector Cuper, quando venne chiamato sulla panchina dell’Inter. Una persona che non si piega di fronte a nessuno, ferma e inscalfibile nei propri principi e nel rispetto di essi. È una definizione che, negli anni, è stata spesso abusata, ma che in questo caso mi pare calzante.
Il ct Mauro Berruto non andava difeso perché fosse il migliore del mondo o perché ci avesse fatto vincere come nessun altro, ma andava difeso per coerenza, per onestà intellettuale e per rispetto delle decisioni (spesso difficili) che il suo ruolo comporta. O perché, semplicemente, la ragione era dalla sua parte. Andava difeso a parole e coi fatti, squalificando i quattro giocatori protagonisti della bravata brasiliana. Ecco, sarebbe bastato questo, alla pallavolo, per provare a differenziarsi un po’ dal Paese che c’è intorno, in cui l’eccezione alla regola è l’unica cosa non negoziabile rimasta.