Credo che ben pochi di voi, nella migliore delle ipotesi, sappiano dare un nome al volto della fotografia qui accanto. E’ norvegese, ha ventidue anni, si chiama Magnus Carlsen e da pochi giorni si è laureato, neppure troppo a sorpresa, campione del mondo di scacchi. Niente salti, corse, pugni in cui far valere l’energia della sua gioventù, quindi, ma ore e ore intorno a un tavolino, in una lotta mentale (feroce, ma pure sempre mentale) contro avversari più adulti ed esperti di lui. Eppure ce l’ha fatta, Carlsen, a strappare il titolo all’indiano Anand, campione in carica da quattro anni e di venti più anziano di lui, un’icona scacchistica nell’era post-Kasparov, colui che deteneva il record di precocità e che oggi è proprio l’allenatore di Carlsen. Così come ce l’aveva fatta, un paio di settimane fa, un altro ventenne terribile, lo spagnolo Marc Marquez, divenuto a neppure 21 anni il più giovane campione mondiale della Moto GP (anche considerando la vecchia classe 500).
Mi fa sempre una certa impressione vedere queste facce così giovani, imberbi, pulite, conquistare un qualcosa che, al momento, è più grande di loro, qualcosa la cui importanza percepiranno pienamente solo negli anni a venire. Un titolo mondiale, specie in uno sport individuale, è spesso l’acme di una carriera, la sintesi perfetta e, spesso, irripetibile di un momento o di una stagione in cui forza fisica e mentale ed esperienza si fondono in una sinfonia irraggiungibile per tutti gli altri. In uno sport di squadra può anche capitare, per un giovane, di trovarsi quasi per caso nel team giusto al momento giusto, magari spalleggiato da vecchi ed esperti leoni che compensano le inevitabili debolezze della tua età. Nelle discipline individuali, invece, sei solo, paghi sulla tua pelle ogni errore e i vecchi leoni, lì, ce li hai tutti contro (anche con un certo astio, solitamente). Le vittorie di Carlsen e Marquez mi impressionano per questo, perché ci raccontano le storie di due ventenni, certamente dotatissimi, che hanno saputo tener duro per una lunga stagione (negli scacchi bisogna prima costruirsi la classifica e poi vincere il durissimo Torneo degli Sfidanti per poter accedere alla finale iridata), non due carneadi che hanno semplicemente imbroccato una giornata di grazia. Ed entrambi vengono già da molti altri successi: Carlsen è numero uno della classifica mondiale già da gennaio, Marquez ha già vinto i titoli mondiali sia in Moto 2 che in 3.
Due fenomeni, certo, ma anche due esempi importanti di talento sostenuto da impegno, costanza e caparbietà in un momento in cui sui media si tende parecchio a generalizzare, dipingendo i “giovani d’oggi” (definizione già di per sé odiosa) come decerebrati dediti solo a Facebook o alla Playstation. Mi rendo conto come sia impensabile, per un Paese completamente gerontocratico come questo (in cui un politico, un manager o un libero professionista di 40 anni sono considerati poco più che bambini), degnare di una qualche fiducia i giovani, ma la direzione in cui va il mondo è questa, che piaccia o no, e l’Italia è l’ultimo dei Paesi industrializzati a non averlo ancora capito. Quanto a noi quarantenni… beh, “si sta come a mezzogiorno sul panino del Mac il cetriolo”, come recita il Paradigma del Cetriolo, geniale deriva ungarettiana di Zerocalcare. Leggetelo (compreso il contenuto extra finale) cliccando qui, e converrete con me, purtroppo.
Li hai ben definiti fenomeni. Quei due terribili ventenni non possono essere definiti in altro modo, se non fossero fenomeni non avrebbero potuto raggiungere così alti risultati. E proprio in quanto tali mi risulta complicato affiancarli alla generazione dei giovani dediti a facebook. Secondo me, i due campioni oggetto del tuo bellissimo articolo, a stento sanno della sua esistenza. Sono talmente dediti al loro sport preferito da non avere tempo per null’altro e spesso sacrificano la loro vita privata.