Lo confesso. Se nella nostra nazionale non fosse successo quel che è successo negli ultimi giorni (4 giocatori, tra cui capitan Travica e Zaytsev, rispediti a casa dopo una notte troppo brava a spasso per Rio) forse non mi sarei neppure preso la briga di guardare il nostro esordio alla Final Six della World League contro la Serbia.
Le due squadre si erano incontrate poche settimane fa a Belgrado e ne eravamo usciti con le ossa rotte, nel gioco prima ancora che nel punteggio. Mi si sarebbe stretto il cuore a vedere gli azzurri maltrattati nuovamente da una squadra certo forte ma non stellare come le generazioni che l’hanno preceduta. E invece, ieri sera alle 21 ero lì, ad ascoltare la mirabile telecronaca di Antinelli e Lucchetta (ma quanto sono bravi?!) e soprattutto curioso di vedere cosa sarebbe stata capace di fare la nostra squadra. Da questa antipatica vicenda avrebbe tratto rabbia o depressione? Avrebbe indossato la sfrontatezza dei giovani che sono subentrati o il grigiore di chi ha perso un paio dei propri capibranco?
La risposta è stata bella, emozionante, a tratti perfino commovente. Abbiamo battuto la Serbia 3-2, dominando a mani basse il tie break, ma anche con un risultato opposto il mio giudizio non sarebbe sostanzialmente cambiato. Perché con questo atteggiamento si va lontano, con questa voglia si fa paura, con questa dedizione al sacrificio e alla lotta, palla su palla, si costruisce qualcosa che gli altri inizieranno a temere. Fossi in Berruto, segnerei questa vittoria come uno dei grandi giorni della mia carriera: dalle paludi di una squadra tanto talentuosa quanto involuta ne è emersa un’altra, inesperta e acerba finché si vuole, ma tremendamente vogliosa di giocare bene, di avere l’ultima parola, di trovare il proprio posto al sole.
Sarebbe ingiusto e sbagliato dire che questa svolta è stata solo frutto della cacciata di Travica, Zaytsev, Sabbi e Randazzo, ma è fuori di dubbio che la loro assenza abbia finalmente responsabilizzato chi si era un po’ nascosto (da un punto di vista emotivo) alla loro ombra, e al tempo stesso abbia snebbiato le idee di Berruto, che stava perdendo la rotta dietro all’eterno equivoco sul ruolo di Zaytsev e all’infinito balletto degli opposti Sabbi e Vettori. Sarà un caso che, partito Sabbi, ieri Vettori sia stato il migliore in campo? Un altro caso che la ricezione abbia funzionato per quattro set su cinque?
Aspettiamo a tirar fuori le bandiere, a parlare di nuova generazione di fenomeni, di nazionale ritrovata e altre sciocchezze simili. Arriveranno anche le sconfitte, perché siamo acerbi e perché gara dopo gara gli altri impareranno a leggere statisticamente anche i nostri nuovi giocatori, ma godiamoci questa gioventù finalmente capace di prendersi il palcoscenico, con le unghie e con i denti, senza padrini e senza sprecare i propri anni migliori in gavette infinite, solo per essere rispettosi dei più anziani. Fidiamoci dei 19 anni di Simone Giannelli, della rabbia di Lanza, dei riflessi di Colaci, e stiamo a vedere che succede fin da stasera, contro la Polonia campione del mondo. Di sicuro non c’è niente, ma neppure di noioso: vi pare poco?
Una bella e accattivante storia da raccontare con alla base la serietà di premiare l’aspetto educativo dell’atleta. Che serva per ricompattare la squadra in prospettiva Rio, chissà, richiamando (qualora si meritasse), chi ha chiesto scusa.