Non è più tempo di raccontare la vita, l’esuberante personalità, la classe cristallina di Muhammad Alì: in questi due giorni seguenti la sua morte ci hanno già pensato, giustamente, tutti i media del mondo, e in tempi non sospetti (nell’ottobre 2014) lo aveva già fatto anche Sport One, dedicandogli la prima puntata della nostra trasmissione su RadioGoal24, di cui potete rileggere il testo CLICCANDO QUI.
È tempo invece di parlare dell’eredità di un uomo immortale, senza il quale il mondo intero oggi sarebbe diverso, senza cui gli Stati Uniti avrebbero impiegato molto di più a risvegliarsi dal loro falso egualitarismo razziale degli anni ’60 e ‘70, senza il quale non avrebbero Barack Obama presidente.
“Perché Alamo c’è finché qualcuno ci crede”, scriveva Vecchioni, e allora Alì non muore finché qualcuno ne parla, finché si spiegherà ai giovani, specialmente ai giovani americani, cos’è stato capace di smuovere un pugile dalla lingua lunga e dal cervello svelto, che ha conquistato il palcoscenico con i pugni e ha saputo poi mantenerlo per cinquant’anni con la coerenza delle sue scelte e lo spessore del suo essere uomo.
Io sono in una posizione privilegiata, da questo punto di vista, potendo parlare di sport a un centinaio di studenti universitari americani ogni anno, e posso vantarmi di aver inserito fin dal mio secondo corso la visione in classe di “Quando eravamo re”, film documentario di Leon Gast, premiato con l’Oscar nel 1997, che racconta tutta la preparazione e il “dietro le quinte” dello storico match tra Alì e Foreman a Kinshasa, in Zaire, nel 1974. Perché l’ho inserito in un corso di marketing sportivo? Perché quando parliamo di sport, anche da un punto di vista commerciale e finanziario, non dobbiamo mai dimenticare che stiamo parlando, innanzitutto, di un’enorme passione. Passione degli spettatori ma, ancor di più, passione degli attori, gli atleti, uomini e donne che dedicano gli anni migliori della loro vita allo sport, che li ricambia, ogni tanto, con soldi e fama più o meno di lunga durata.
E la reazione dei ragazzi è sempre stupefacente. Tutti hanno sentito parlare di Alì, certo, ma quasi nessuno conosce i motivi della sua grandezza, della sua fama globale. E la visione di quel film e le mie spiegazioni li colgono quasi fossero nudi, improvvisamente di fronte a problematiche del loro Paese che non hanno vissuto, che sembrano loro distanti anni luce. Ma dalla discussione collettiva, e dai segnali lanciati qua e là nelle settimane seguenti, si capisce che la vicenda senza tempo di quell’uomo ha lasciato il segno, collocandolo su un gradino più alto rispetto a tutte le superstar patinate per cui impazziscono. E mi piace immaginarli in questi giorni, i miei Ben, Rachel, Danait, Andrew, John, Katherine e via via tutti gli altri, più consapevoli di tutti i loro amici sul significato della scomparsa di Alì e su quanto la società in cui vivono sia anche figlia del suo coraggio.
Non sarà lo stesso continuare a parlarne agli studenti che verranno, sarà forse un po’ più distante nel tempo, sarà forse più duro da sbrecciare il muro della loro memoria, ma questo vorrà solo dire metterci più impegno e più passione, non certo smettere di farlo. “Ali boma yè”, ovunque tu sia.
Commento intenso quanto mai opportuno. Credo che i tuoi prossimi studenti americani capiranno meglio e di più ALI’.