Contro il razzismo e contro Trump: ora lo sport Usa fa sul serio

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Sono passati tredici mesi da quando Colin Kaepernick spaccò l’opinione pubblica americana rifiutando di alzarsi all’inno nazionale, in segno di protesta contro il comportamento violento della polizia, in molte parti del paese, verso gli afroamericani. Ne scrivemmo su questo blog, osservando poi come, nei mesi seguenti, il suo gesto fosse rimasto solitario, con la finale amarezza di notare come Kap fosse rimasto senza squadra nel nuovo campionato. Una protesta isolata, sembrava, importante solo per i libri di storia dello sport ma fine a se stessa.

Nel frattempo, però, sono successe due cose: l’elezione di Donald Trump a presidente degli Usa e gli scontri di Charlottesville, in rigoroso ordine cronologico. Il primo evento ha fornito un elemento fondamentale per ogni protesta, un nemico comune. Kaepernick protestava contro il razzismo in generale, non aveva un bersaglio con nome e cognome. Il secondo evento ha riattizzato il fuoco, grazie alle proteste dei suprematisti bianchi (o vogliamo chiamarli con tre K?) contro la rimozione di una statua del generale Lee, comandante delle forse sudiste nella Guerra di Secessione contro gli yankee antischiavisti. Da lì, a Charlottesville nacque una contromanifestazione antirazzista, dispersa dalla polizia con un morto e trenta feriti. Dal presidente arrivò una blanda condanna del tutto, senza distinzioni di sorta, ancor più blanda se si considera il linguaggio abitualmente adottato dall’uomo in questione, non propriamente un neodemocristiano.

Questi due fattori hanno fatto sì che ora, alla prima occasione utile, tutto lo sport (o quasi, la bianchissima NHL fa eccezione) riprendesse il gesto di Kap e lo amplificasse, rendendolo più virale nei numeri e ancor più clamoroso nei gesti. Nell’ultimo turno della NFL abbiamo assistito a intere squadre in ginocchio, bianchi compresi, a giocatori di fama come Justin Houston dei Chiefs spalle al campo durante l’inno, a squadre chiuse negli spogliatoi per protesta fino all’ultima nota di “God bless America”. E poi abbiamo assistito ai primi cenni di protesta nella MLB (e chissà cosa succederà negli imminenti playoff), fino al violentissimo scontro via social tra il presidente e tre stelle di prima grandezza del basket di ieri e di oggi, Bryant, James e Curry. Una sollevazione corale dello sport professionistico Usa, finora apparentemente spalleggiata dalle franchigie e dalle leghe, cui Trump ha risposto nel peggiore dei modi, mettendosi nei panni del più becero dei tifosi e invitando i fan ad andarsene dagli stadi e i dirigenti a licenziare in tronco chi si macchia di antipatriottismo.

Ma non succederà, non finché l’unione farà la forza: nessun proprietario sarà tanto folle da svuotare la propria squadra da ogni valore tecnico e fisico, alienandosi al tempo stesso la partecipazione (e i soldi) di milioni di tifosi neri. Anche il businessman più razzista inorridirebbe davanti agli effetti catastrofici che una mossa del genere produrrebbe sui suoi affari. Così come Jackie Robinson venne chiamato in Major League per far comprare i biglietti delle partite anche ai neri, così ora nessuna lega sarebbe in grado di privarsi di tutti gli atleti di colore, sempre che non voglia dichiarare bancarotta sei mesi dopo, spianando la strada alle “Negro League” (come si chiamavano una volta) che oggi sarebbero ben più appassionanti delle “White League”. Un salto indietro assurdo e antistorico di cui Trump sembra non rendersi conto.

“Panem et circenses” dicevano gli antichi romani riguardo alle primarie necessità del popolo: cibo e giochi erano già allora le leve migliori per garantirsi il sostegno (e il voto) dei propri concittadini. Non pretendiamo che Trump conosca questa locuzione, ma guardi il suo gradimento ai minimi storici e pensi a come ricucire il suo paese iniziando dai suoi simboli sportivi, anziché aumentarne spaccature e divisioni con minacce quotidiane e prove di forza da bullo di quartiere. Più che un dittatore coreano da operetta o la guerra infinita a un califfato, lo sport della sua stessa nazione potrebbe rivelarsi la pietra tombale sulla sua presidenza.

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Gianluca Puzzo

Un commento

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  • Sui grandi temi che ancora affliggono l’umanità (vedi razzismo) sarebbe opportuno che ognuno di noi manifestasse tutto il proprio dissenso, urlandolo o solo parlandone pacatamente. I grandi temi non sono “affari loro” e non possiamo voltare la testa dall’altra parte. Ben vengano gli articoli come questo. Grazie.

Gianluca Puzzo

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