“Lo sport del ciclismo è uno sport proletario, adatto a uomini capaci di soffrire, abituati a soffrire, che non temono nulla; che devono rinunciare a tutto non per vincere ma per essere lì, sulla strada, in balia degli elementi”. In queste poche righe di Aldo De Martino è condensato l’intimo fascino del ciclismo, la ragione profonda di questo sport crudele che resiste ai tempi, legato indissolubilmente alle masse popolari. Ma sarebbe sbagliato relegare la bicicletta alla sola funzione di attrezzo sportivo, negandole una grande importanza sociale, visto che, per almeno due decenni intorno alla metà del Novecento, è stata l’unico, economico mezzo di spostamento degli Italiani.
Il 29 maggio 1940, in un Giro d’Italia dall’animo pesante a causa dei sentori di guerra, gli Italiani scoprono “un ragazzo segaligno, magro come un osso di prosciutto di montagna” che vince la tappa Firenze-Modena attraversando l’Appennino sotto il diluvio: Fausto Coppi. “La scioltezza del suo ritmo era un inno, un canto alla bellezza del ciclismo” scrive Cesare Facetti. Quel ragazzo porta la maglia rosa fino alla fine, vincendo il primo dei suoi cinque Giri d’Italia “con la prerogativa di essere il vincitore di una corsa che ebbe il potere di far ritardare di cinque giorni la dichiarazione di guerra. Perché è storicamente provato che la guerra doveva essere dichiarata il 5 giugno; fu dichiarata appunto il 10 per permettere la conclusione del Giro”.
Scoppia la guerra, ma Fausto viene lasciato libero di allenarsi e di battere il record dell’ora perché un campione sportivo è anche comodo politicamente. Nel ’43 viene comunque mandato a combattere in Tunisia, come caporale di fanteria, ma viene presto fatto prigioniero dagli Alleati. Dopo l’8 settembre Fausto è tra i badogliani e viene imbarcato per Napoli, dove diventa autista e attendente di un tenente della RAF.
“Viene la liberazione e Coppi prende la via del Nord, pedala sulle strade della guerra, marcia verso casa fra macerie, miseria, ponti disastrati. Il suo è un picaresco percorso nella desolazione se non fosse che, alla fine, troverà la madre, la promessa sposa, la collina di Castellania (il paese natale, in provincia di Alessandria) e sentimenti non desolati, perché almeno la guerra non ha portato lutti in famiglia”.
Da lì, dal Giro del ’46, ha propriamente inizio la grande rivalità tra Fausto e Gino Bartali il quale, più anziano di cinque anni, era un campione affermato già prima della guerra, avendo vinto il Tour de France del 1938. Fiumi d’inchiostro sono stati spesi a classificare il rapporto tra due dei più grandi protagonisti della storia del ciclismo; certo è che Bartali e Coppi si sono odiati molto per una serie di motivi, che vanno dalle differenze caratteriali al fatto di essere entrambi fortissimi sullo stesso terreno, la montagna. Ma è anche vero che tra i due vi è stato moltissimo rispetto, un rispetto dalle radici antiche, come conferma lo stesso Bartali: “Coppi a me non ha mai dato nulla. Siamo stati amici perché eravamo tutti e due figli di contadini. Gli ho voluto bene per questo. Perché io so cosa soffrivano i contadini a quei tempi là”. Sulle strade di questa rivalità, durata ben quattordici anni, si sono riversati gli Italiani, divisi nel tifo come fosse una religione: “pochi amori sono fedeli e tenaci come quelli dei tifosi per il loro campione. Nei lunghi, lunghissimi anni durante i quali è durata la supremazia di Bartali e Coppi, nessun tifoso ha palpitato per l’uno e per l’altro insieme”. Tifare per l’uno o per l’altro indicava spesso un modo ben preciso di vedere e vivere la vita. Scrive Paolo Volponi: “Coppi lo vivevo come uno dell’opposizione, uno che sfidava le circostanze, la realtà, i suoi stessi limiti fisici. Aveva cuore e polmoni prodigiosi, ma era anche un po’ rachitico. Non aveva l’aria di uno nato per vincere. Ero coppiano perché mi sembrava uno non immediatamente vincitore, uno non sicuro di sé, non creato per trionfare, ma che trionfava con un grande alone di passione e di fatica”. Coppi sembrava un Ettore, destinato a soccombere contro Achille. “Fausto aveva quella faccia da uomo dolente, da uomo vero, da uomo di fatica… certo, anche Bartali era un uomo vero, un uomo di fatica. Ma era più equilibrato, più maturo, fisicamente più vincitore».
CONTINUA
Entusiasmante, come la storia e le imprese sportive del campionissimo. Molto spesso mi sono chiesto cosa e quanto altro avrebbe vinto Fausto Coppi senza gli anni tragici della guerra. Aspetto con grande interesse la successiva puntata.