Generazione di Fenomeni 3: quien me quita lo bailado (1)

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1991-1996: sei anni che racchiudono al tempo stesso tutta la grandezza e la sofferenza della Generazione di Fenomeni (e l’essenza dello sport stesso). Arrivano, tra gli altri, il secondo mondiale di fila, due Europei e quattro World League, ma incassiamo anche due brucianti delusioni olimpiche.

“Nessuno può toglierci quello che abbiamo ballato”: questo proverbio argentino, citato da Julio Velasco alla vigilia delle Olimpiadi di Atlanta, va tenuto bene a mente quando si analizzano gli anni dal 1991 al 1996. Dopo i primi trionfi e il boom, per la Generazione di Fenomeni arrivano, inevitabili, le prime sconfitte, alcune delle quali oggettivamente pesanti, i primi addii e le prime polemiche, ma è importante premettere che quei passi falsi non possono in alcun modo cancellare tutto l’oro di cui è lastricata, in quegli stessi anni, la strada di questo gruppo a tratti invincibile.
Il primo brusco risveglio, dopo l’abbuffata Europeo-Mondiale dell’89-90, arriva con la sconfitta in finale agli Europei di Berlino del ’91, per mano dell’ultima Urss della storia, solo in parte lenita dal facile oro ai Giochi del Mediterraneo e dal sontuoso bis in World League, 3-0 in finale su Cuba nel bagno di folla del Forum di Assago (con tanto di rissa sfiorata tra Zorzi e Beltran). In fondo, tutti guardano alle Olimpiadi di Barcellona dell’anno seguente e lo stop di Berlino viene archiviato come un semplice inciampo. Nel frattempo, per far fronte al moltiplicarsi degli impegni internazionali e dare spazio ai molti altri importanti giocatori che stanno fiorendo all’ombra della prima Generazione di Fenomeni, viene creata la distinzione tra Italia 1 e Italia 2, due nazionali che si alterneranno per molte estati a venire, molto spesso con risultati ugualmente lusinghieri. Proprio pescando da Italia 2, Velasco apporta alcuni cambiamenti alla rosa olimpica, con l’intenzione di allargarla ed accrescerla qualitativamente: a Barcellona si giocheranno otto partite in due settimane, molte delle quali con una tensione alle stelle. La tensione è data dall’essere i maggiori favoriti per l’oro, per di più accompagnati dall’improvvida definizione giornalistica di “Dream Team del volley”, visto che gli USA avrebbero schierato quello vero nel basket. Il girone fila liscio, ad eccezione di una sconfitta con gli USA; pur senza brillare arriviamo ai quarti di finale, dove ci tocca l’Olanda, asfaltata l’anno precedente agli Europei. Si gioca il 5 agosto, alle 10.30 del mattino, e sembriamo essere ancora nel letto per un set abbondante; poi Peter Blangè, alzatore e faro della squadra, s’infortuna e la partita gira. Rimontiamo e superiamo gli olandesi, ma quando è il momento di chiudere, nel quarto set, ci spegniamo completamente, perdendolo con un incredibile 15-2. Anche nel quinto set giochiamo male ma restiamo a galla, annulliamo 3 match ball, arrivando fino al 16 pari,

dove un’assurdità di regolamento (che sarà modificato subito dopo) prevede che decadano i due punti di distacco: chi arriva a 17 vince. La battuta è italiana, con Vullo, e l’Olanda è quindi favorita potendo attaccare per prima; la palla è per Van der Meulen, che coglie le dita di Cantagalli a muro e sigla il punto della vittoria olandese. È il crollo degli dei, siamo fuori dai primi quattro posti, ma la nostra nazionale saprà condurre in porto con la dignità che le compete il torneo olimpico, chiudendo senza altre sconfitte al quinto posto, mentre l’oro va al Brasile. Col senno di poi, un errore su tutti va imputato a Velasco: la gestione dei palleggiatori. Al posto di De Giorgi, perfetto secondo di Tofoli, il ct aveva convocato Fabio Vullo, dotato di blasone e bacheca più ricca del marchigiano e pertanto per nulla disposto (giustamente) a starsene buono in panchina. Quello dell’alzatore, un po’ come il portiere nel calcio, è un ruolo che necessità di tranquillità, in cui si gioca di precisione e lucidità, in cui non si scarica la tensione con una schiacciata come negli altri. Le gerarchie devono essere chiare tra i due registi e Velasco questo aveva scelto di non farlo, sperando di avere il meglio da entrambi grazie alla competizione interna. Ovviamente non siamo arrivati quinti solo per colpa di Tofoli e Vullo, ma è indubbio che la mancanza di continuità in regia abbia contribuito a far rendere entrambi al di sotto delle loro (altissime) qualità, trasmettendo insicurezza alla squadra. Archiviata in un mare di amarezza Barcellona, l’Italia torna a vincere subito, con le finali di World League a Genova, mostrando quella tenacia che la porterà a breve nuovamente in cima al mondo. Nessuno immagina, però, che quella della vittoriosa finale contro Cuba sarà l’ultima presenza in azzurro di Andrea Lucchetta, il capitano “ghigliottinato”, come dirà lui stesso, nell’inverno seguente da Velasco per far spazio al centro della rete al nuovo che avanza, Gravina su tutti. Lucchetta, campione amatissimo da tifosi e compagni, non le manda a dire al suo ormai ex ct, ricevendo anche la pubblica solidarietà di chi azzurro ancora lo è, come Zorzi. È il momento più difficile per Velasco, che è costretto ad incassare ulteriori critiche dopo la sconfitta con il Brasile nella semifinale della World League 1993, che relega l’Italia al terzo posto; in meno di dodici mesi i verdeoro ci hanno scalzato dal trono mondiale, vincendo Olimpiadi e World League, ma il tempo delle rivincite si avvicina. Nessuno può saperlo in quel momento, ma quella contro il Brasile sarà l’ultima battuta d’arresto della Generazione di Fenomeni per i tre anni successivi.

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Gianluca Puzzo

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