Stavolta è una storia triste, quella che sto per raccontarvi. Una storia in cui una squadra è stata costretta a piangere ben otto dei suoi giocatori già pochi anni dopo il loro ritiro (due addirittura mentre erano ancora in attività), otto protagonisti della sua formazione più gloriosa. Una storia che lega assieme le incredibili coincidenze della vita, la depressione che spesso avvolge gli sportivi di alto livello dopo il ritiro e la pesante eredità che una carriera nel football lascia nei suoi protagonisti.
I San Diego Chargers del 1994 partono in sordina, fuori da tutti i pronostici non solo per il Superbowl ma poco considerati perfino per un posto nei playoff: l’anno precedente sono finiti penultimi nella loro division, con un mediocre record di 8 vittorie e altrettante sconfitte. Nella loro storia non hanno mai vinto un titolo e neppure mai raggiunto un Superbowl, e sembra già lontana la splendida cavalcata del 1992 quando, con 11 vittorie nelle ultime 12 partite, avevano raggiunto i playoff, venendo eliminati al secondo turno dai Miami Dolphins.
L’inizio stagione, però, va al di là delle più rosee aspettative: i Chargers vincono le prime 6 partite, di cui 4 fuori casa, schizzando subito in testa alla loro division, la AFC West. L’attacco non è molto esplosivo, ma ben bilanciato, potendo contare sul qb Stan Humphries e il ricevitore Tony Martin per le giocate aeree e su un running back giovane e molto produttivo, Natrone Means. La vera forza della squadra è la difesa, che ha il suo leader carismatico in Junior Seau (nella foto), linebacker di origini samoane straordinario per fisicità e visione di gioco (avrà 12 convocazioni al Pro Bowl in carriera), e una prima linea di grande impatto con i tackle Reuben Davis, Shawn Lee e l’end Leslie O’Neal.
Alla settima partita arriva la prima sconfitta, contro i Denver Broncos: da quel momento i Chargers perderanno 5 delle successive 8 gare, rischiando di compromettere quanto di buono fatto in precedenza, ma le due vittorie finali contro Jets e Steelers li confermano in vetta alla division e qualificati per i playoff. Nella postseason esordiscono in casa, superando al primo turno di un solo punto, 22-21, i Miami Dolphins e compiono poi l’impresa andando a battere i Pittsburgh Steelers in trasferta, 17-13, in una partita dominata dalle difese. I Chargers arrivano così, per la prima volta nella loro storia, al Superbowl, dove però si trovano davanti la corazzata dei San Francisco 49ers, che non lascerà loro scampo, dominandoli 49-26. E’ il 29 gennaio 1995.
Da quel momento, purtroppo, la vicenda sportiva dovrà cedere il passo alla cronaca: pochi mesi dopo quella partita, il 19 giugno, il linebacker David Griggs rimane ucciso a 28 anni in un incidente d’auto sulla Florida Turnpike, dopo aver perduto il controllo della propria auto. Passa poco meno di un anno e scompare il secondo membro di quella squadra: il running back Rodney Culver perde la vita a 26 anni insieme alla moglie nel disastro aereo del volo 592 da Miami ad Atlanta, precipitato senza lasciare superstiti nelle paludi delle Everglades. E’ l’11 maggio ’96.
Due anni più tardi, nel luglio ’98, il linebacker Doug Miller, 29 anni, viene colpito e ucciso da un fulmine mentre è in vacanza in un campeggio del Colorado. Dieci anni dopo, l’11 maggio 2008, il centro Curtis Whitley muore a 39 anni per overdose; il 15 ottobre dello stesso anno il defensive end Chris Mims viene stroncato da un infarto a 38 anni, a causa dell’enorme aumento di peso (226 kg) in conseguenza della depressione post ritiro. Il sesto Charger a scomparire prematuramente è il già citato Shawn Lee, ucciso dalla polmonite a 44 anni, il 26 febbraio 2011. L’8 dicembre dello stesso anno è la volta del linebacker Lewis Bush, colpito da infarto pochi giorni dopo il suo 44° compleanno.
L’ottava e ultima morte è quella più simbolica e dolorosa per i tifosi dei Chargers e per gli amanti del football: il 2 maggio 2012 Junior Seau si suicida con un colpo di pistola, nella sua casa californiana, senza lasciare alcun messaggio e senza nessun motivo apparente. Nel suo sangue non vengono trovate tracce di alcool o droga, ma successivi ed approfonditi esami sul suo cervello evidenzieranno i segni di numerosi traumi cranici riportati nel corso della carriera e probabilmente alla base dell’improvviso gesto di follia.
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