Nell’estate del 2013 la Roma decide di passare da Zemanlandia ad un tal Rudi Garcia di cui non si conosce praticamente nulla se non l’allegro motivetto che canta nello spogliatoio del Lille e i risultati sportivi di non poco conto ottenuti con la squadra francese.
Garcia è francese di origini spagnole, suo nonno, in fuga dal regime franchista, è emigrato oltre i Pirenei in cerca di lavoro. Tutto inizia lentamente a cambiare e in breve tempo riesce a costruirsi un’immagine affascinante diversa e quantomeno originale rispetto agli allenatori precedenti.
Nel suo primo periodo in Italia si presenta come una persona garbata, piacevole e misurata, con quel senso di distaccamento che non fa mai male in una città come Roma dove non bisogna prendersi troppo sul serio.
Ma partiamo dalle ceneri, il 26 maggio del 2013, intorno alle 20, quando l’arbitrio fischia la fine della partita lo stadio è avvolto da un brusio che non promette nulla di buono, la Roma ha perso la finale di Coppa Italia con la Lazio ed è sprofondata in una cupa disperazione, la parte di città giallorossa inizia allora a cercare i colpevoli per rendere quanto meno più sopportabile il dolore: la tribuna autorità, dove sono seduti i vertici della società sportiva è stretta d’assedio figurativamente e non solo.
Il senso di smarrimento prendeva corpo ed erano trascorsi già due anni di dirigenza americana che avevano portato un sesto e un settimo posto e una finale di Coppa Italia che chiunque, col senno di poi, avrebbe preferito non giocare.
Nel mezzo di tanto caos, si aggiungevano ai non risultati il conflitto culturale tra la dirigenza, intenzionata a introdurre uno stile più orientato al senso degli affari e i cosiddetti fucking idiots, sfiduciati e sospettosi verso personaggi estranei che percepivano come invasori e al tempo stesso assenti, una sorta di gas che non vedi ma ti sta uccidendo a tua insaputa.
La presenza/assenza della dirigenza, impacciata e intempestiva raggiunge il culmine tre giorni prima di quel derby del 26 maggio in cui si decide di presentare il nuovo logo della Roma, privo della dicitura “AS”, accolto come un vero attentato all’identità storica del club, una mossa che gettò su quella partita da subito una luce nefasta, un preludio alla visione di undici controfigure di giocatori di calcio.
Non male trovarsi così, non si può che migliorare? Può un allenatore che si profilava come quarta scelta dopo Allegri, Mazzarri, e persino Laurent Blanc risollevare un ambiente per sua definizione insanabile?
Garcia ama ricordare l’incontro con Sabatini a Milano: «Ti abbiamo fatto venire, ma non sceglieremo te», questo l’esordio, poi a un certo punto si è alzato, mi ha fatto vedere la Gazzetta e mi ha detto: «Tutti si aspettano che porti un grande nome a Roma. Se porto un grande nome mi applaudiranno. Ma io me ne frego degli applausi». Un dialogo fantasmagorico e ad effetto che aumenta questa figura mitologica intorno al direttore sportivo che qualcuno dovrebbe cominciare a smantellare gradualmente nonostante le plusvalenze pazzesche realizzate che danno ancora alla Roma ossigeno ma non per molto.
Arriva a Roma, nella sua prima conferenza stampa sfoggia un italiano quasi perfetto, il primo giorno di allenamento si avvicina a chi contesta la squadra e dice: «chi contesta la squadra è della Lazio». Non un modo signorile di approcciarsi ma l’abile comunicatore sa come allungare il brodo e ingraziarsi le viscere della squadra.
Si arriva al profilo di allenatore comunicativo alla Josè Mourinho, il capo, il decisionista.
Come tutti gli abili comunicatori, quelli che arringano le folle, sa dove si trova, dove mettere le mani e quali corde dell’animo toccare, non a caso, sia lui che il portoghese si occupavano, nella parte iniziale della carriera, dei rapporti tra staff tecnico e giocatori, il concetto su cui basa la sua azione è elementare: «Un giocatore vale molto. Un altro giocatore vale molto. Ma il rapporto tra i due non ha prezzo», parole che a stento tradurrà in azione concreta.
Le prime 10 vittorie consecutive non solo proiettano la Roma verso una dimensione insperata, ma mettono in scena una serie di simbologie mistiche accompagnate da parolone che fanno dell’allenatore un attore che usa il palcoscenico esterno per creare quei meccanismi che dovrebbero riversarsi sul campo: «Un derby non si gioca, si vince» e dopo la vittoria dice: «Abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio», volendo appunto significare, con una certa spacconeria molto romanista, che la Roma che batte la Lazio rappresenta semplicemente la regola.
Ma qual è l’ordine delle cose, che significa essere romanisti? Perché la Roma si imprigiona nello sterile concetto di supremazia cittadina? Perché il tifoso vive nel ripianto della finale di Coppa dei Campioni dell’84? Cosa rappresenta la ciclica ripetizione dei sogni di gloria di inizio stagione seguita dal nichilismo che accompagna i fallimenti? Perché il tifoso si attacca al giocatore modesto che termina la partita con la maglia zuppa o al giocatore leggendario che limita la propria carriera non uscendo mai dal Raccordo? L’eterna dicotomia dell’entusiasmo precampionato e la disillusione spesso già sotto l’albero di natale contribuisce a proiettare sul campo di calcio la doppia faccia di Roma, centro del potere politico solo geograficamente perché poi ciò che muove tutto è il denaro (il maledetto nord)?
Sette secondi posti in 15 anni, vincendo una sola volta lo scudetto, inutile commentare questo dato oltre al fatto che in Europa sia la squadra che ha collezionato più secondi posti violando regole statistiche elementari, sfidando la legge di gravità e il tutto condito da un perenne senso di persecuzione e di ingiustizia; dall’altra la certezza di una predestinazione alla vittoria che spesso appare come miraggio solo per il “merito” di essere la Capitale.
Se in questo contesto, l’abile comunicatore parla di chiesa al centro del villaggio e proclama di portare trofei a Roma, la frittata è fatta.
Come fa un tifoso a non amare Rudi Garcia? Come fa a non amare uno che asseconda il machismo dei tifosi, che rievoca l’immagine dei gladiatori, il “non c’è problema” che personalmente odio.
Si arriva al punto di non ritorno, Juventus – Roma dell’ottobre 2014, partita ricca di tensione e di decisioni al limite, che la Roma finì per perdere 3-2 all’ultimo minuto, Garcia si era lasciato andare a un altro gesto di quelli che rimangono stampati in mente, sviolinando nei confronti dell’arbitro.
Continua l’atteggiamento Mourinhiano delle frasi ed azioni ad effetto, famosa l’immagine dei polsi legati sbandierata dal portoghese ai tempi dell’Inter, ora il violino di Garcia.
«Juventus-Roma mi ha fatto capire che quest’anno vinceremo lo scudetto!» Con questa frase i tifosi della Roma sono ostaggi del francese, la SINDROME DI STOCCOLMA si è perfezionata, il carnefice e la vittima sono uniti l’uno all’altra.
Il calendario prevede, come un copione studiato nei minimi particolari, una data molto precisa: il 25 maggio, data di un derby, che alcuni chiamano memorial, nuovamente decisivo, questa volta per il secondo posto in classifica e l’accesso diretto alla Champions League.
La partita rappresenta il culmine della strategia della tensione di Garcia, che nella conferenza pre-match è più “mourinhiano” del solito e adotta strategie pazzesche ai confini della realtà: «noi contro tutti», «noi siamo scarsi, loro invece giocano il più bel calcio d’Italia», punzecchia la Lazio anche per lo spostamento della partita voluto da Lotito dalla domenica al lunedì: «Ma il derby quando si gioca? Lunedì? Pensavo che dopo i 120 minuti con la Juventus l’avessero spostato a martedì». Serve coraggio comunicativo per dire, alla fine di una stagione nel quale lui stesso dichiarava di voler vincere lo scudetto, che la Roma parte sfavorita. In qualche modo la cosa funziona: la Roma vince 2 a 1 su una Lazio stanca e nervosa e si qualifica direttamente in Champions League. Sul campo si festeggia come se si fosse vinto lo scudetto e intanto il brodo si allunga e l’agonia verrà prolungata usando le parole per mistificare la realtà.
La gestione Garcia si caratterizza per l’alternanza di momenti negativi che quando sembrano arrivare al limite di sopportazione lasciano il passo a eventi che sembrano azzerare i precedenti errori concedendo di nuovo un credito limitato (la vittoria col Genoa ripropone il copione).
Cosa rende ad un certo punto l’allenatore debole? Che cosa dirada la nebbia e il fumo che abilmente ha propagato?
La conferenza stampa estiva dove dichiara che il gap con la Juventus sarà difficilmente colmabile. Questo è il nodo cruciale, Garcia sapeva di avere le spalle abbastanza grosse da poter giocare sul filo e di nuovo ha provato a determinare la realtà usando la conferenza stampa: il messaggio è chiaramente rivolto alla dirigenza, che qualche giorno dopo si riunisce a Londra senza di lui. Sembra vicino all’esonero e invece viene riconfermato e Sabatini gli allestisce una rosa, forse, ancora più competitiva. Viene cacciato lo staff voluto dal francese e imposto il nuovo preparatore atletico, abbiamo un SEPARATO IN CASA.
Si è messo contro la dirigenza e costretto il direttore sportivo ad operare a prescindere dalle indicazioni dell’allenatore, il tutto a godimento della società che può continuare nella non partecipazione alle dinamiche calcistiche e psicologiche della squadra a tutto vantaggio dell’aspetto economico della gestione.
Questo è il cuore del problema, finora celato dalla prestazione di singoli che operano al di fuori degli schemi che non esistono (rasoiate in contropiede di Gervinho e Salah e punizioni di Pjanic).
In un clima di guerra aperta, la gestione del gruppo somiglia davvero a quella di un branco, dove sotto il lupo capobranco rappresentato dall’allenatore, ci sono i lupi di secondo livello, quelli del “consiglio dei saggi”, e infine i lupi omega, quelli di rango più basso, che non vedono il campo o vengono sottoposti a sostituzioni punitive o esclusioni avvilenti.
Il povero Iturbe, un giocatore già fragile psicologicamente, catapultato in una grande piazza, ha sofferto più di tutti la situazione pur avendo grandi limiti tecnici evidenti a tutti, ma sicuramente non c’è stato tatto nella gestione del suo caso; il caso Vainqueur si somma agli altri, dopo appena 40 minuti dal suo esordio da titolare contro il Bate Borisov viene sostituito, oppure lo sciacallaggio contro Ucan, non c’è spazio per i deboli, per i fragili, mentre la fiducia è illimitata verso i suoi pupilli, Keita su tutti e gli intoccabili.
I giocatori le sentono le disparità di trattamento e il branco non può essere formato da più seconde linee che prime, anche lo slogan per la campagna abbonamenti del branco di lupi rende infelice il tutto, la frase di Sabatini che parla di “schizzi di sangue che ci saranno ma non del mister” e il nuovo abbraccio dopo la vittoria scontata contro un Genoa ridotto ai minimi termini ha rafforzato il NOI in un mare di nulla.
Rudi Garcia, ora come non mai, appare solo e accerchiato, stretto attorno al proprio branco ma attenzione, quando un lupo diventa troppo vecchio o inizia ad assumere comportamenti non accettati dal gruppo, questo può decidere di isolarlo. A quel punto il lupo segue il branco da lontano e solitario è più esposto all’attacco di altri predatori e non riesce a cacciare, a quel punto ha scarse possibilità di sopravvivenza specie se si affida a pochi dei suoi che, in ogni momento, possono mancare o decidere di tradirlo quando si accorgono che la sua aurea di capopopolo è svanita.