Quarant’anni di attesa ed eccola lì, la Polonia: un Paese intero a saltare con i propri giocatori, capaci di battere il Brasile tricampeao al termine di una finale, e di un Mondiale, in cui hanno fatto finalmente capire anche ai più giovani perché, una volta, erano maestri di pallavolo. Più di 600 mila spettatori nei palazzetti di un Mondiale questo sport non li aveva mai visti, né al maschile né al femminile, e di questo record bisogna ringraziare l’enorme, sincera passione dei polacchi per il volley: spalti pieni ovunque, a qualsiasi partita, non solo a quelle della nazionale di casa (come accadrà invece ai Mondiali femminili in Italia, scommettiamo?). Tribune sempre piene, quindi, ma anche colorate, allegre, con bambini saltellanti e belle ragazze sorridenti, davvero uno spaccato magnifico del popolo polacco e del popolo mondiale della pallavolo.
Sul campo, lo ammetto, ho tifato smodatamente per i padroni di casa. Una squadra operaia, non dotatissima fisicamente, ma con elementi come Winiarski e Mika dotati di manualità e tecnica monumentali, e soprattutto, unita. Il Brasile l’aveva regolarmente battuta in tutte le occasioni ufficiali da otto anni a questa parte; nel girone di semifinale era arrivata la prima sconfitta, al tie break, ma un po’ tutti pensavamo che in finale, nella partita secca, i verdeoro avrebbero rimesso le cose sui binari della normalità, e il primo set non ha fatto che confermarlo. La Polonia era bloccata dall’emozione, mentre il Brasile imperversava con i muri di Lucas e gli attacchi di Wallace, per un 25-18 davvero molto eloquente. Poi Antiga e Blain, la coppia francese che guida la Polonia, cambiano il palleggiatore, inserendo l’anziano Zagumny, vecchia conoscenza del nostro campionato, e l’attacco polacco inizia a ritrovarsi grazie alla sua regia: vince alcuni scambi da cineteca e capisce che, seppur difficile, si può fare. Il Brasile non molla, ma via via vede sgretolarsi le proprie certezze, si innervosisce fino a diventare isterico e a perdere lucidità in tutti i fondamentali. E la mancanza di lucidità, si sa, porta errori. Bruno dimentica il posto sei, la ricezione sbanda, Sidao al centro è impalpabile, i soli Wallace, Lucas e l’immenso Murilo sembrano portare sulle loro spalle il peso della squadra, disperatamente aggrappata al sogno di vincere il quarto mondiale consecutivo, impresa mai riuscita a nessuno.
Bernardinho in panchina usa poco e male le sostituzioni, insistendo sul doppio cambio palleggiatore/opposto anche dopo aver visto Vissotto prendere una murata spaziale da Wlazy nel finale di terzo set. Toglie Sidao troppo tardi, inserendo Renè freddo, che commette l’errore della resa nel finale di quarto set, tirando in rete un primo tempo senza muro. E commette l’ultimo errore in conferenza stampa, prendendosela con gli arbitri, rei a suo dire di aver favorito la squadra di casa, come se la Polonia avesse vinto solo con mezzucci. Ma intorno a lui, e al livore di chi aveva forse disimparato a perdere, c’è un intero Paese in delirio. E uno sport che, da oggi, deve tornare a imparare molto dalla Polonia.
Una vittoria partita da una lontana preparazione fisica e mentale. Una vittoria voluta da una nazione intera, basti ricordare la meravigliosa cornice di pubblico in occasione del match-inaugurale contro la Serbia. Uno stadio di calcio trasformato in un palasport gremito in ogni ordine di posto con una capienza a cinque zeri. Per quel che riguarda la nostra squadra, è sicuramente un momento di flessione dove l’apice, è stato raggiunto in occasione di quella sberla che chissà per quanto tempo lascerà il livido sulla pelle. Mi riferisco alla partita contro Portorico, la gara del famigerato Turn-Over. Bah. Fermo restando che tutto lo sport di “seconda fila” italiana vive un periodo di crisi assoluta anche e soprattutto per le poche risorse Coni (il calcio va avanti grazie alle Tv private), mi piace prendere come riferimento il nostro settebello guidato da un vero maestro. Speriamo di fare bella figura con il volley femminile, dove tra l’altro ospitiamo l’avvenimento mondiale.