Michael “Air” Jordan e Kobe “Black Mamba” Bryant. Due mamma santissima del basket mondiale, guru intoccabili dell’NBA, figure mitologiche per metà uomini e metà fantasia. Franco Bolelli, filosofo e scrittore (nonché grande appassionato di pallacanestro), tempo fa scrisse: “La loro grande lezione sta nell’attitudine, nella volontà di potenza, nel desiderio bruciante di migliorarsi a ogni costo, nella spinta a prendersi sempre ogni responsabilità”. Di talento, in giro, è possibile trovarne. Non facilmente e non a buon mercato, certo, ma la tendenza naturale ad espanderlo senza confini, ad elevarlo senza mete (come hanno saputo fare questi due interpreti), è qualcosa che compete solo a chi è destinato ad entrare nella storia e restarci.
Minneapolis. Qualche settimana fa. Target Center gravido di spettatori. Kobe Bryant si appresta ad entrare in lunetta. La palla che stringe tra le lunghe dita affusolate ha un peso specifico incredibile. Incontenibile. Una manciata di attimi di concentrazione. Occhi fissi sul canestro, perle di sudore incoronano la fronte. Mira presa, colpo sparato. “So contare, quindi, quando sono andato al tiro, sapevo cosa stava per succedere” sosterrà a fine partita. ”Cosa mi sono detto? Di non mandare tutto a p…”. I canestri vanno a segno e l’arena scivola in un black out emotivo di rara bellezza. Il match si ferma per tributare al 24 dei Lakers il sorpasso al grande MJ, una leggenda che ha imposto il suo marchio di fabbrica sul mondo NBA (tanto quanto il giocatore che ha appena osato raggiungerlo e superarlo). Bryant balza al terzo posto con 32.310 punti mentre Michael Jordan è fermo a 32.292. Per tutte le altre considerazioni sulla dimensione reale di questi due grandi giocatori non basterebbe un libro, anche se uno dei due è fuori categoria. I primi due della lista sono Kareem Abdul-Jabbar con 38.387 e Karl Malone con 36.928 (ruoli diversi e molte più partite sulle spalle). Futuri target a portata di Black Mamba? Chi può dirlo… forse si! Per i piccoli sogni c’è troppa inflazione, quindi, se proprio si deve sognare, tanto vale farlo in grande. Nonostante gli intoppi fisici che hanno spesso martoriato il suo corpo, Kobe ha saputo rialzarsi in ogni occasione, rattoppando il danno subito con una forza di volontà spaventosa e testarda. Enorme come quella voglia di competere e misurarsi che fin da ragazzino lo ha portato ad emergere dall’anonimato. Negli occhi del pubblico adorante resteranno impressi, per sempre, gli scambi di battute e gli sguardi di rispetto che KB lanciava a MJ, il quale ricambiava, volentieri, con consigli da fratello maggiore.
L’evento del sorpasso è una di quelle gesta che compie il giro del mondo nell’arco di pochi tweet. Basta questo per mandare in soffitta il 23 dei Bulls? No, mi dispiace. Michael Jordan resta lassù, insuperabile anche se superato!
Correva la stagione ’92-’93 quando Sua Altezza Aerea Michael Jordan, dopo dieci anni di splendente carriera cestistica, seminò scompiglio nel mondo NBA. Da poco messo al dito il suo terzo anello decise di prendere una strada tanto differente quanto inaspettata che pochi bookmakers avrebbero pronosticato: il baseball. Nel basket aveva vinto tutto e aveva vinto su tutti. Gli occhi della tigre si stavano affievolendo e non riusciva più a trovare quella motivazione famelica che lo aveva spinto a piegare al suo volere ogni legge della fisica. Qualche mese prima, inoltre, aveva detto addio all’adorato papà, James, freddato brutalmente da due rapinatori nella sua Lexus. Era davvero troppo. Non restava che dare una svolta decisiva alla sua vita. Ed ecco che le affettuose braccia materne di uno sport amato fin da bambino (il baseball appunto) lo hanno accolto e coccolato (almeno per qualche tempo). Cronisti, giornalisti, fan e semplici ammiratori rimasero orfani del loro idolo. Non restava che rimboccarsi le maniche e mettersi subito alla ricerca di un valido sostituto. Difficile a dirsi, (quasi) impossibile a farsi! Grant Hill, Penny Hardaway, Jerry Stackhouse, furono tutti etichettati con il titolo di “Futuro MJ”, ma nessuno di essi arrivò davvero al suo livello. La caccia terminò non appena Jordan su rese protagonista di un nuovo colpo di scena, un destabilizzante coming back alle origini, indossando nuovamente scarpe Nike, canotta rossa e comodi shorts. Il Re era tornato e non c’era posto per nessun’altro! La macchina tritapunti risultò intatta e funzionante come (se non più di) prima: una forma fisica eccezionale ed una mira di precisione (da far invidia ad un cecchino). Risultato: altro Larry O’Brien Trophy portato a casa a mani basse e l’ennesimo titolo di MVP delle finali.
Intanto, però, qualcosa di strano stava accadendo da qualche parte.
Pennsylvania, nei pressi di Philadelphia. Lower Merion High School, un giovanotto dal nome Kobe Bryant stava distruggendo i canestri delle palestre con una scioltezza disarmante. A detta di molti era un vero fenomeno, una forza della natura inarrestabile, tanto da imporre il suo nome sul nuovo record statale di punti durante il quadriennio scolastico. Ma è una notizia ancora freddina, di cui non molti parlano. Occorre dimostrare dell’altro, occorre avere costanza e partorire nuovi record per essere notato sul serio. Presto fatto! Kobe salta direttamente dalle High School alla NBA, aggirando alla velocità della luce quella cantina di fenomeni universitari a cui tanto resterà legato Jordan (North Carolina). Il College non è più un must, come in passato, per accedere all’Olimpo della pallacanestro americana. Kevin Garnett, un anno prima, aveva inaugurato ufficialmente le danze. I tempi cambiano, per fortuna, e lo spettacolo pure. Di lì a poco ci sarà un’autentica invasione di liceali di grande pregio. Ma “questi nuovi giocatori” non verranno visti subito come autentici avversari da rispettare (prima) e combattere (dopo). Saranno vittime sacrificali di un limbo paradossale: valutati troppo immaturi per giocare a stretto giro nella NBA ma troppo talentuosi per lasciarli andare altrove. Per fortuna Jerry West non indosserà gli occhiali ipocriti di molti manager dell’epoca e punterà una mano vincente su Bryant, decretando la sua fortuna. A Kobe verrà offerto il numero 13 dai Charlotte Hornets, guarda caso la squadra della “città adottiva” di Jordan. Ma non è ancora tempo di scontri tra titani e Kobe sarà presto mandato ai Lakers in cambio di Vlade Divac. Lì indosserà la canotta numero 8 fino a sostituirla con un nuovo numero, il 24. Vi dice nulla? Un atto dalla forte connotazione simbolica, come a voler dire che il numero 23 (lo storico di Jordan) aveva fermato per troppo tempo la Lega ed ora, finalmente, era giunto il momento di un passo avanti che permettesse di guardare al futuro con desiderio di scoperta invece di girare costantemente il capo dietro, verso un passato grandioso ma comunque andato.
Stiamo anticipando troppo gli eventi. Andiamo con ordine e riavvolgiamo brevemente il nastro.
17 dicembre 1996. Prima disputa tra i due campioni. Jordan sputa appena 30 punti con 9 rimbalzi, mentre il numero 8 dei Lakers respira l’aria dell’arena per soli 10 miseri minuti (davvero pochi per annoverare questa partita come una sfida memorabile). Kobe vs. Jordan da manuale sarà quella del 28 marzo 2003: un match da molti interpretato come l’ufficiale passaggio di consegne. MJ ha imboccato il viale del tramonto, è alle sue ultime apparizioni e resta una guardia straordinaria, continuando a schiacciare psicologicamente i suoi avversari. Bryant (più giovane, più agguerrito, più motivato) manifesta il suo immenso arsenale distruttivo, sfoggiando ciò di cui é capace: una prestazione perfetta da 55 punti, di cui 42 segnati nel solo primo tempo! Michael guarda con rabbia e sorride con saggezza. Sa che non ha nulla da invidiare al nuovo astro, nulla da invidiare a nessun altro giocatore. Lui è stato e resterà quella luce accecante verso cui tutti tendono ma che non si può fissare troppo a lungo, pena la cecità. In quella occasione, però, MJ è costretto a chinare il capo alla supremazia di Bryant, consegnandogli tra le mani lo scettro reale. Prima o poi sarebbe accaduto. Vero, ma è incredibile. L’ansia è finita. Il lungo cammino terminato. La ricerca dell’erede conclusa. Kobe può essere ufficialmente incoronato. Il Re è morto… lunga vita al Nuovo Re!
(CONTINUA)
Due storie straordinarie di due campioni inarrivabili. Grazie per avercele raccontate.