Nba Finals ‘17: Warriors campioni, Durant MVP

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I Golden State Warriors trionfano in gara 5 delle Finals e vincono il loro secondo titolo Nba in appena tre anni. Con uno score finale di sedici vittorie e una sola sconfitta (in gara 4 a Cleveland, ma sembrava quasi che i Warriors volessero rimandare la festa a casa propria) i ragazzi di Steve Kerr si aggiudicano un anello che non è mai sembrato in discussione, e che hanno meritato al termine di una stagione fantastica.

Come accennato nell’articolo dopo gara 1, Charles Barkley durante le prime fasi aveva definito questi come i più brutti playoff di sempre. Effettivamente, abituati agli scontri epici degli anni ‘80 e ‘90, o alle serie infinite ed emozionanti degli anni Duemila, vedere un team vincere con appena una sconfitta nel percorso, fa pensare ad una passeggiata senza storie. Eppure, il bello del basket, ma direi anche e soprattutto dell’Nba, sta nel fatto che anche laddove la competizione non è equilibrata, non mancano di certo spunti di interesse e di esaltazione per tifosi e appassionati.

È stata una stagione strana: il record di triple doppie di Westbrook, la candidatura ad Mvp di tre giocatori assenti dalle Finals, due compagini nettamente più forti delle altre nelle due conference (e uniche pronosticabili contendenti per il successo finale) sono segnali di un campionato che pare abbia appianato verso il basso il livello medio delle squadre, ampliando a dismisura il divario tra le primissime e tutte le altre. Un divario che si è dilatato dopo l’estate scorsa, dopo cioè il tanto chiacchierato passaggio di Kevin Durant ai Golden State: tutti sapevamo che sarebbe stata la squadra da battere, anche se forse speravamo in qualche attrito di spogliatoio, in una eccessiva mania di protagonismo da parte di KD rispetto al gioco di squadra di Curry e soci. Ed effettivamente qualche piccola crepa in stagione c’è stata, ma è stata subito superata dalla voglia di vincere e dalla professionalità di tutti i protagonisti.

Sportività: è la prima parola che mi è venuta in mente al termine di gara 5. Il giocatore più atteso, quello che aveva tutti i riflettori addosso, subito dopo la sirena va ad abbracciare il rivale più forte, quello che sembrava invincibile e che l’anno scorso ha dominato il campionato. L’abbraccio tra Kevin Durant a LeBron James è ripreso da tutti, ovviamente, e fa il giro del mondo: un’immagine che parla, anzi urla. Racconta di un ragazzo andato via da Oklahoma per raggiungere una squadra fortissima, e perciò con molto più da perdere, voglioso di ottenere quel titolo troppe volte bramato ma mai raggiunto. E di un altro, idolatrato, troppo spesso criticato e paragonato a miti del passato, che ha lottato come un leone fino alla fine, salvo poi arrendersi alla forza degli avversari, riconosciuta con grande lealtà. Un giocatore, LeBron, che sa benissimo cosa significa avere tutti i riflettori addosso e che, nel 2010, ebbe la stessa idea di KD: lasciare la squadra che lo aveva scelto al draft, adottato, e portato quasi all’anello, per passare ad un’altra (Miami Heat) che gli potesse permettere di raggiungere finalmente il traguardo tanto agognato, entrando così negli annali di questo sport. E forse anche per questa forte similitudine, LeBron ha accettato con lucido rispetto la vittoria degli avversari e il trionfo di Durant, elogiandolo anche con splendide parole di stima al termine di tutte le cinque gare delle finali.

Oltre al successo di Durant, uomo copertina dell’anno e ovviamente eletto MVP delle finals al termine di una serie in cui ha messo a referto 35,2 punti, 8 rimbalzi e 5,4 assist di media e il 55,6% dal campo, non va dimenticato ovviamente l’apporto magnifico del due volte Mvp di Regular season Steph Curry e di Klay Thompson, mediaticamente oscurati dal neo-compagno di squadra ma sempre incredibilmente efficaci in attacco (il primo chiude la serie con 26,8 punti e 9,4 assist di media, senza gara 4 giocata oggettivamente con meno intensità i numeri parlano addirittura di un 30 e 10,2 di media) e in difesa (il secondo ha costretto Irving e soci a giocate di difficoltà mostruosa, disinnescando di fatto le migliori bocche di fuoco nei momenti topici delle gare); e ovviamente il solidissimo Draymond Green, a cui si aggiungono i validi Livingston, West, Clark e McGee dalla panchina. Menzione speciale, però, per Zaza Pachulia, al suo primo anello: passato a 19 anni dalla Turchia agli Orlando Magic nel 2003, dopo quattordici anni di onesta carriera a stelle e strisce entra nella storia per essere il primo giocatore georgiano vincitore di un campionato Nba e finalmente verrà ricordato più per questo trionfo che per le tante presenze nella esilarante rubrica della emittente americana TNT “Shaqtin a fool” curata da Shaquille O’Neill.

Terminata la stagione, il prossimo appuntamento è il 22 giugno, data del Draft 2017 in cui i Boston Celtics (finalisti dell’East conference) avranno la scelta numero 1, seguiti dai Lakers, per poi aspettare l’annuncio dell’Mvp della Regular season 2016/2017 tra Harden, Leonard e Westbrook (con quest’ultimo favorito dai bookmakers anche grazie all’incredibile tripla doppia di media stagionale), previsto per il 26 giugno. Dopodiché l’estate ci dirà cosa aspettarci dalla prossima stagione: ci sono alcuni nomi molto appetibili che potrebbero far variare gli equilibri (Chris Paul fra tutti) e rendere la prossima annata ancora più intrigante. Intanto, passeremo le ore calde che ci attendono fino ad ottobre a rivedere tutte le incredibili giocate di queste finals, ripercorrere la splendida stagione di Russell Westbrook, di Kawhi Leonard e dei suoi Spurs, delle giocate di Isaiah Thomas e dei suoi compagni terribili dei Celtics, delle penetrazioni impossibili di John Wall, dei funambolici euro-step di Harden o dei tiri impossibili di Curry. Tutto perché, come dice lo slogan della Nba, I love this game.

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Luigi Rivolta

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