I limiti esistono per spingere gli uomini lungo il sentiero sconnesso della perfezione, la salita irta dell’eccellenza. Prostrazioni della mente partorite unicamente per essere superate, oltre la soglia dell’ordinario. La somma di paure da debellare che infettano l’animo e corrompono la volontà, allontanando gli obiettivi.
Un manipolo di Cavalieri ne ha dato grande dimostrazione, seminando audacia e raccogliendo gloria. Eroi che hanno reso possibile l’impossibile tra sangue, sudore e lacrime, spingendosi lì dove nessuno era mai arrivato. Uomini che hanno incontrato il loro destino indossando armature venate di coraggio, elmi forgiati di determinazione e scudi bagnati di passione.
I Cavs arrivano puntuali all’appuntamento con la Storia (forse addirittura un pizzico in anticipo): l’attendono, ne prendono le distanze e la riscrivono da zero, vincendo il massimo campionato di basketball al mondo. Hanno creduto e combattuto fino alla fine, senza mai perdersi, arretrate, cedere, contro ogni pronostico possibile, contro la propria stessa incredulità, centimetro dopo centimetro, goccia dopo goccia. Nessuno prima di loro aveva mai osato tanto, nessuno era stato così folle da trasformare un parziale negativo di 3-1 in un successo planetario di 3-4. Meraviglia e stupore. Ammirazione e godimento.
“Cleveland, questo è per te!” ha urlato il Prescelto, LeBron James, alla fine di una lunga ed estenuante Gara 7, una delle partite più emozionanti disputate in una serie di Finals. Uno di quegli eventi divenuti leggenda prima ancora di essere vissuti. In quelle parole c’è tutta la rabbia, la gioia, l’amore di un combattente nato, arrivato di diritto nell’Olimpo dei più grandi al mondo. Il “Larry O’Brien Trophy” unito al titolo di “Best MVP Finals 2016” sono estensioni naturali dei suoi arti, emanazioni della sua volontà, il risultato di sacrificio e testardaggine.
Il Re non sa trattenere le lacrime a fine partita. Non vuole farlo. La sua gioia è totale, la sua felicità autentica! Si accascia sul parquet e batte ripetutamente il pugno sul campo di gioco come gesto ossessivo, liberatorio. Il viso rigato di lacrime, il corpo scosso da spasmi di soddisfazione. Questo titolo lo aveva promesso tempo fa, quando – maturato due anni a Miami, messa da parte un’enorme esperienza, posti al dito i primi due anelli della sua carriera – aveva optato per il “coming back”, il ritorno a casa. King James ha mantenuto la parola, ha trascinato (con violenza) Cleveland al suo primo titolo NBA, alla sua prima impresa epica.
Cleveland Cavaliers 93 – Golden State Warrioris 89
“The Chosen One” ha dominato la serie in lungo e largo: 29.7 punti, 11.3 rimbalzi, 8.9 assist, 2.6 recuperi e 2.3 stoppate. Settima tripla doppia in carriera nelle Finals. Numeri da capogiro! Kyrie Irving non è stato da meno, consacrandosi vero fenomeno e allontanandosi sempre più dall’ombra ingombrante del Re (27.1 punti di media e la realizzazione della tripla del sorpasso definitivo 92-89). Anche Kevin Love, anello debole dei Cavs, ha saputo imporsi con un’intima dose di aggressività, riuscendo a conquistare diversi rimbalzi sotto canestro (14). Coach Lue, invece, ha avuto la possibilità di chiarire ai suoi detrattori molte delle scelte fatte: non il frutto di una lucida follia, bensì il prodotto di precise operazioni strategiche. Ha saputo infondere grande serenità proprio lì dove era più richiesta. Infine la classe senza età di Richard Jefferson e la santificazione di Tristan Thompson hanno completato un quadro già di per se perfetto.
Golden State, da parte sua, ha portato a termine la migliore regular season che la NBA ricordi: una vera macchina trita-punti, impeccabile nello stile ed efficace nell’esecuzione, surclassando il record storico dei Bulls di M. Jordan e S. Pippen. Curry e compagni hanno inanellato ben 73 vittorie prima dei play-off per poi abbandonarsi ad una débâcle nel momento meno opportuno. Contro i Cavs i ragazzi di Coach Kerr erano partiti con il piede giusto: 3-1 dopo le prime quattro gare. Il secondo titolo consecutivo era qualcosa di “già acquisito”, occorreva solo portare a casa quell’ultima partita, quel match archiviato nell’immaginario collettivo come “pura formalità”, uno scontro che aveva il sapore arrogante e felpato di “cosa ormai fatta”. Le aspettative rovinano, si sa, e spesso “dare per scontato qualcosa” è l’inizio della fine. Da quel momento in poi la coscienza collettiva dei Cavs ha subito uno scossone adrenalinico, impennandosi. Lo spirito guerriero di ciascun giocatore ha ruggito come una belva feroce, alimentando speranza, producendo volontà, concretizzando sogni.
“Questa partita mi perseguiterà a lungo! Non sono stato efficace, non ho dato quello che potevo” ha riferito Steph Curry nella conferenza stampa post partita “Questo è uno stimolo per rimettermi a lavorare e migliorare ancora la prossima stagione”. Per l’MVP di Golden State “solo” 17 punti, sbagliando lì dove ci aveva abituati ad una certosina precisione. È stato in questi frangenti che l’ottimo Iguodala e il granitico Green (32 punti, 5/7 da due, 6/8 da tre, 4/4 tiri liberi) hanno regalato prestazioni eccezionali da compensare le dèfaillance dei compagni.
L’ultima partita delle Finals si è presentata come uno scontro gladiatorio fin da subito. In queste battaglie non si fanno prigionieri! Non c’è mai stato il netto predominio di una fazione (con oltre 20 cambi di punteggio). Cleveland si porta avanti 23-22 quando finisce il primo quarto di gioco, con LeBron scatenato e Love aggressivo (7 rimbalzi nei 12’ inaugurali). Golden State reagisce e si affida alla grinta del devastante Green, filando così al riposo avanti di 49-42. Inizio ripresa. Cleveland si concede un breve attimo di smarrimento (1/14 da tre dopo i primi 24’), subito punito dagli avversari. Chi potrebbe suonare la riscossa se non il “lui”? LeBron prima risveglia Smith (12 punti) e poi stuzzica Irving (26 punti) che a 4’ dalla sirena firma il 68-61 dei Cavaliers, riportando sotto i Warriors. L’ultimo atto inizia con Golden State avanti 76-75. Ad un tratto un fulmine a ciel sereno: Curry, Thompson e Green firmano 7 dolorosissimi punti di fila (87-83) con oltre 5 minuti ancora da giocare.
Il Re scuote il capo, sbuffa. Non ci sta. Guarda in cagnesco e attacca a testa bassa. Impreziosisce il suo tabellino con 6 punti consecutivi, inverte la rotta e sancisce il sorpasso (87-89). La calma é solo apparente. Il sospiro dei Cavalieri dura il battito d’ali di una farfalla. Thompson pareggia con imbarazzante velocità. I minuti scivolano via. Il punteggio resta ibernato (89-89). Vari tentativi da ambo i lati. Nulla di fatto. Un “dai e vai” di Curry per Iguadola proiettato a canestro. Il Re si oppone, non ha concesso il suo lasciapassare. Stoppata imperiosa di James che blocca la palla sul tabellone. Spaventoso gesto atletico! Finale di partita in apnea: 53 secondi da giocare. Curry si libera e va al tiro. Ancora un errore. Ripartono i Cavs. Prodezza di Irvin e canestro da tre. Palla ai campioni in carica. Nulla di fatto. Troppi errori da parte loro in questi ultimi scontri. LeBron prova l’incursione, tenta la schiacciata, subisce fallo. Resta a terra per quella che sembra un’eternità. Trauma al braccio. Si rialza. Va in lunetta. I fastidiosi cori piovono copiosi su di lui. É una maschera di concentrazione. Posizione e rilascio della palla. Primo libero sbagliato. Ne resta un secondo. Nuovamente in lunetta. Canestro! I Cavs si portano a +4. Ancora 10 interminabili secondi sul cronometro. Un’infinità. I Warriors provano il guizzo, l’ultimo. Ennesimo tiro, ennesimo fallimento. Sono troppo provati. Non c’è più la forza per reagire. Carburante esaurito. Determinazione evaporata. Cleveland vede materializzarsi un sogno atteso da sempre. La panchina è in piedi. Finalmente la sirena. LeBron piange. Irvin guarda il cielo. Gli spettatori applaudono.
Cleveland ce l’ha fatta.
I Cavs siedono finalmente sul tetto del mondo.
Il Re e i suoi Cavalieri sono i nuovi dominatori della NBA.
Vedere un gigante piangere è la conferma che una grande emozione azzera tutto, annullando razze, dimensioni, diversità, colore della pelle. E’ la magia dello sport.
Partita stellare e davvero meritata, la squalifica di Green è stata determinante per la serie.
Bell’articolo Frà 😉