La Eastern Conference non ha esaurito i suoi segreti e il nostro curioso “NBA Team Name Tour” ha ancora tanto da raccontare.
Benvenuti a bordo della seconda incursione nel mondo del basket a stelle e strisce. Sempre entro i confini del Regno Incantato della “Eastern Conference” ma stavolta con lo sguardo puntato verso la “Central Division”.
Chicago Bulls
Chi non conosce il rabbioso toro rosso che ha fatto da sfondo alle innumerevoli prodezze gravitazionali di Micheal “Air” Jordan (il giocatore più forte di tutti i tempi)? Dobbiamo dire un “grazie” formato famiglia a Richard Klein, primo proprietario, se oggi esiste uno dei team più popolari della NBA. Fu lui a dettare legge sull’argomento nel lontano 1966. Aveva un’ ammirazione radicale nei confronti dei tori e sperava ardentemente di far rivivere nei suoi ragazzi la medesima forza propulsiva e la stessa stoica resistenza. Tra il XIX° e il XX° secolo Chicago era il centro mondiale della macellazione e imballaggio della carne che arrivava direttamente dal Texas: da lì veniva lavorata e distribuita nel resto del Paese. La correlazione tra basket e industria alimentare ha continuato a proliferare fino ai favolosi anni ’90, quando l’iniziale zona degradata e pericolosa di Randolph Street divenne il centro nevralgico della ristorazione cittadina. Oggi conosciamo questa città come una vera “basketball town” ma il suo cammino è stato lungo e tortuoso. Nel 1949 provarono ad affermarsi (senza riscuotere troppo successo) gli Stags; poi venne la volta dei Packers nel 1961 (nulla a che vedere con i poderosi Imballatori della NFL di Green Bay); immediatamente dopo toccò ai Zephyrs (gli odierni Washington Wizards) che ben presto acquistarono il biglietto di sola andata per Baltimora (1963). A inizio secolo, nonostante la buona volontà, Chicago sembrava incapace di trovare un valido spazio ove collocare il basket. Erano già presenti due squadre targate MLB (i Cubs e i White Sox), una della NHL (i Blackhawks) e i Bears per la NFL. La testardaggine di Klein, ex giocatore, fortunatamente non vacillò. “Costruire e far giocare una squadra potente, forte e vincente” divenne il suo mantra. Non avrebbe mollato prima di riuscirci! La leggenda vuole che un giorno Klein stesse esponendo alla propria famiglia le idee partorite sul nome del nuovo team, quando il piccolo Mark (il figlio) tuonò: “Ehi papà, stai dicendo un sacco di cavolate” (“Dad, that’s a bunch of bulls!”). L’uomo rimase sorpreso e folgorato allo stesso tempo (altro che Matadors o Toreador su cui stava rimuginando da diverse settimane!). “Ecco! Chiameremo la squadra Chicago Bulls” fu la sua risposta. Da allora la franchigia non ha mai cambiato nome e logo.
Cleveland Cavaliers
La storia inizia nel 1970. La città, Cleveland. Una data e un luogo in cui il basket era un perfetto sconosciuto. All’epoca la sete di sport veniva principalmente saziata dai Cleveland Indians (MLB) e dai Barons (poi ribattezzati Crusaders, una delle minors di hockey). Ma Nick James Mileti, una sorta di personaggio mitologico che dominava tutto ciò che era definibile “sport” nell’area metropolitana, covava un sogno nel cassetto. Fece valere tutto il suo potere e la sua enorme influenza per dare i natali al basket nella sua amata città. Contattò la NBA, versando immediatamente 4 milioni di dollari e iscrivendo una (futura ed ipotetica) squadra di pallacanestro. Ora occorreva mettere in piedi tutto il resto: dei giocatori, un coach, un’arena dove costruire il campo e soprattutto un nome. Il giornale più venduto del periodo (Plain Dealer) decise di lanciare sulle sue pagine un concorso a cui far partecipare i lettori. Bisognava trovare un nome ad effetto per quella franchigia che stava regalando all’Ohio l’importanza cestistica che meritava. Il signor Jerry Tomko, un americano medio come tanti altri, un perfetto sconosciuto, stava accompagnando la moglie quando venne raggiunto dalla notizia via radio e ne rimase subito incuriosito. Decise di partecipare al contest inviando una lettera in cui motivava la sua scelta: “I Cavalieri sono un gruppo di uomini impavidi e coraggiosi che non si arrendono mai. Così dovrebbero essere i giocatori della squadra della mia città”. La lettera convinse Mileti al di là di ogni ragionevole dubbio e fu così che “Cavaliers”, poi abbreviato nel più americano “Cavs”, divenne la scelta finale. Ultima tappa di una storia incredibile: Febbraio 2010. Si sente suonare alla porta di una tipica casa statunitense. Un pacco di dimensioni modeste viene consegnato tra le mani di un anziano sessantottenne. Il mittente: Cleveland Cavaliers, la squadra del cuore di quell’uomo. Il regalo: un pallone da basket firmato da ogni giocatore dei Cavs. Il destinatario: Jerry Tomko, colui che estrasse 40 anni prima “quel nome” (e non altri) dal cilindro della sua fantasia con l’arte di un prestigiatore.
Detroit Piston
Dall’Ohio all’Indiana, terra di basket per antonomasia. Nella località di Fort Wayne, nel 1942, due fratelli (Fred e Janet Zollner) proprietari di una delle più importanti fonderie d’America specializzata nella produzione di pistoni (fornitori dei giganti General Motors e Ford) avevano un pallino fisso; utilizzare lo sport come trampolino di lancio per le loro attività imprenditoriali. Fu questa ragione che portò alla nascita dei “Fort Wayne Zollner Pistons”. Il primo logo della franchigia fu, neanche a dirlo, un ominide-pistone intento a palleggiare. I Zollner divennero personalità di tutto rispetto nel panorama statunitense anche (e soprattutto) al duplice titolo portato a casa dai Pistons nel 1944 e nel 1945: Campioni Assoluti della NBL (National Basketball League). Fu grazie alle pressioni insistenti di Mr. Zollner e alla sempre crescente importanza del suo team che, ben presto, i dirigenti delle franchigie della NBL e della BAA (Basketball Association of America) decisero di smettere di farsi la guerra sottobanco e iniziare a costruire quella che sarà la NBA. Chiaramente i pistoni furono tra i primi a militare nella Lega nuova di zecca fino a raggiungere lo stratosferico risultato di otto qualificazioni consecutive ai playoff. Guidati dall’ala George Yardley, i Fort Wayne Pistons raggiunsero le NBA Finals nel 1955 e nel 1956, perse rispettivamente contro i Syracuse Nationals (4-3) e i Philadelphia Warriors (4-1). La fama crebbe a dismisura, i tifosi si moltiplicarono a vista d’occhio, il desiderio di partecipare attivamente alla vita della franchigia seguì una curva esponenziale verso l’alto. Sentenza finale: impossibile continuare a vivere a Fort Wayne. Nel 1957 l’annuncio ufficiale: Detroit. La scelta cadde su una metropoli dove poter aggredire un immenso bacino di utenza, una città rimasta orfana dei Gems (che durarono il tempo di una sola stagione 1946-1947). I nuovi Detroit Pistons giocarono all’Olympia Stadium (attuale sede della franchigia NHL Detroit Red Wings) durante le loro prime quattro stagioni, per poi trasferirsi alla Cobo Arena. Tuttavia quegli anni furono segnati da risultati deludenti sia sul campo e sia ai botteghini. Seguirono gli anni ’60 e ’70 durante i quali la squadra venne qualificata come un “organico dalle grandi individualità ma dallo scarso senso d’insieme”. Nel 1974 la Zollner Family cedette la proprietà. Gli anni ’80 andarono anche peggio, con percentuali di vittorie davvero basse. Le cose, però, presero una piega diversa verso il 1986-1987, quando vennero acquistati giocatori del calibro di John Salley e Dennis Rodman. È grazie a questi ultimi che fu possibile conferire un maggior impatto fisico al gioco, fino a guadagnarsi l’appellativo di “Bad Boys”.
Milwaukee Bucks
Passiamo alla categoria degli animali. Bucks (cervi) fu il parto della fantasia di R.D. Trebilcox, originario di Whitefish Bay, Wisconsin. Lo propose alla dirigenza sul finire degli anni ’60 e vinse lo scontro diretto con altri acerrimi nemici quali Stags, Skunk e Stallion. Da una dichiarazione che lo stesso Mr. Trebilcox rilasciò, in quei giorni, alla stampa, si desume il significato di quella scelta: “Il cervo è valoroso, un buon saltatore ed è veloce, agile”. Ha avuto ragione? Il Wisconsin è una terra che vede scritto nel suo codice genetico la firma inconfondibile di Madre Natura: ampi spazi verdi, grandi laghi, sterminate foreste, vaste praterie, alberi di varia natura e dimensione. I boschi che un tempo ricoprivano quasi l’80% della superficie, per effetto della urbanizzazione, oggi si sono ridotti a circa la metà, ma rappresentano sempre un tratto fondamentale delle regione. Basti pensare che lo Stato è stato soprannominato “America’s Dairyland” per la sua considerevole produzione di prodotti caseari. Aceri, betulle, querce, pioppi, olmi, tigli e frassini, hanno ospitato da tempo una fauna molto variegata: volpi, conigli, puzzole, scoiattoli, marmotte, porcospini, così come lupi e orsi… ma gli animali più cari sono stati il tasso e il cervo dalla coda bianca. Il primo (badger, in inglese) campeggia sulla bandiera del Wisconsin (Badger State), mentre il secondo ha fornito lo spunto per battezzare la nuova franchigia (“buck”, infatti, indica precisamente il maschio adulto del cervo) che, nel 1968-1969, debuttò nella NBA di fianco ai famosi Phoenix Suns. Il logo originale era un cervo arancione seduto sulla scritta “Milwaukee” con un pallone da basket roteante sullo zoccolo. Il maglione che indossava era verde (il colore delle foreste) e argento (i colori originari della franchigia). Verso la metà degli anni ’90 venne introdotto il viola come colore di contrasto al verde, con una revisione completa che permise di infondere maggiore solidità e compattezza (per simboleggiare i valori di unione e solidarietà) mentre la scritta divenne più grande e quadrata. L’animale, inoltre, assunse un atteggiamento più severo: sguardo fiero, deciso, mentre il corpo acquisì forza e muscolosità. L’ultima modifica avvenne nel 2006, quando il viola fu sostituito dal rosso, simbolo di intensità ed energia. Questa squadra è passata alla gloria per aver dato i natali sportivi ad un tale di nome Ferdinand Lew Alcindor, stella indiscussa della UCLA, poi conosciuto come uno dei protagonisti mondiali della palla a spicchi: Kareem Abdul-Jabbar (a seguito della sua conversione islamica).
Indiana Pacers
La storia, spesso, ama ripetersi: ancora una volta un “one man show” influenzò l’origine del nome. “Pacers” significa letteralmente “battistrada” e si richiama, in modo inequivocabile, alla tradizione delle corse di cavalli al trotto (prima) e alla famosa 500 Miglia di Indianapolis (poi). Si sperava che il nome fosse di buon auspicio e che la squadra riuscisse così a tenere il passo delle migliori franchigie dell’epoca. Ma andiamo con ordine e iniziamo dal principio. 1967, anno dell’esordio nella ABA (American Basket Association). I vertici dirigenziali della squadra, due amanti maniacali delle corse (macchine e cavalli), Tinkhame e Barnes, decisero di non avviare nessuna lotteria per la scelta del nome, bensì di dare libero sfogo alle proprie passioni e a un momento di puro egocentrismo. “Pacers” nacque dall’incontro di due termini: da una parte “pace car” e dall’altra “pacing”. Il primo termine si riferisce alla più conosciuta safety-car, quella vettura che entra in azione durante le corse automobilistiche in caso di incidenti, mentre il secondo richiama i cavalli, più precisamente una tipologia di galoppo. Menzione a parte merita la storia legata alla location designata per ospitare le partite casalinghe. In origine il progetto, tanto seducente quanto ambizioso, prevedeva che la squadra volteggiasse tra le arena delle maggiori città dello Stato. La prima casa dei Pacers fu lo State Fairgrounds Coliseum di Indianapolis. Città che poi non venne mai abbandonata. L’idea originaria, però, rimase impressa nel nome, che non cambiò: Indiana (e non Indianapolis). I tempi di Reggie Miller erano ancora lontani e i Pacers dovevano pensare a edificarsi fin dalle basi: impiegarono appena l’arco di un triennio per mettere su un buon collettivo, solido e vincente, dettando legge nella ABA come il team più blasonato. Tre trofei portati a casa in solo quattro anni (1970, 1972 e 1973). Le note dolenti iniziarono quanto la ABA si fuse con la NBA. Dal 1976 e per circa un decennio i giocatori faticarono a trovare una propria dimensione, restando ai margini delle grandi stelle dell’epoca. Un periodo davvero nero per una squadra ed una platea di tifosi di quel genere. Nel draft del 1987 venne scelto un magrissimo Mr Miller. La svolta per i Pacers! Con Reggie in campo, negli anni ’90, Indiana raggiunse 4 finali di Conference e nel 2000 approdarono alle Finals, perse, contro i Lakers dell’incredibile duo Shaq e Kobe. Che dire di Miller? Uno dei giocatori più amati e odiati allo stesso tempo, un fenomeno allo stato puro, una velocità di pensiero e azione incredibile, “una gallina starnazzante” (dirà Michael Jordan)… ma questa è un’altra storia!