Il countdown di qualche settimana fa ci ha permesso di fiondare nell’iperspazio NBA un razzo, a velocità supersonica, per rovistare tra le curiosità più interessanti delle squadre a stelle e strisce. Prossima destinazione: pianeti ancora inesplorati. Nessuno (e sottolineo nessuno) nella “Southeast Division” della Eastern Conference ha il diritto di sentirsi al sicuro!
EASTERN CONFERENCE – Southeast Division
Atlanta Hawks
Se esistesse un premio per il team più vagabondo della Lega, ebbene, non potrebbe che andare ai Falchi di Atlanta. La storia ci dice che nel 1951 la squadra si trasferì da Buffalo a Milwaukee, poi fu la volta di St. Louis (dal 1955 al 1968), infine la capitale della Georgia (casa attuale). Sarà la volta buona? Molti ricordano Atlanta per essere la sede della “multinazionale per eccellenza” (Coca-Cola) oppure per aver ospitato alcuni degli eventi sportivi più faraonici e seguiti degli ultimi tempi (le XXVI Olimpiadi del 1996). Ma Atlanta è anche una città dalla forte vocazione cestistica che ha saputo legare, negli anni, il suo nome a quello degli Hawks.
I Falchi fecero il loro primo battito d’ali a metà degli anni Trenta, passando per Pistol Pete Maravich, lo Human Highlight Film fino a raggiungere il miglior record della Eastern Conference confezionato e depositato nel recentissimo 2015. Stop! Stiamo andando troppo veloci. Riavvolgiamo il nastro e ripartiamo dal tradizionale “c’era una volta”. Ab origine furono i Bisonti, i Buffalo Bisons per la precisione, della Midwest Basketball Conference (1936). Questi anni furono caratterizzati da un gioco dinamico e vincente, sopratutto per la presenza del primo giocatore di colore del Midwest (Hank Williams). Presto, però, seguì un periodo di inattività e fu allora che la proprietà (nella persona di Ben Kerner) decise di trasferirsi sulle fertili sponde del Mississipi, un conglomerato formato da tre città a cavallo tra l’Illinois e l’Iowa. “Tri-Cities Blackhawks”, dove le tre città erano Moline e Rock Island ubicate nell’Illinois e Davenport nell’Iowa. Tre aree che ebbero un ruolo primario nella cruenta battaglia del 1831, consegnata ai posteri con il nome di “Blackhawk War”. Americani e Indiani si affrontarono aspramente sotto lo sguardo indomito e il coraggio imperante del leggendario “Falco Nero” (da cui il pittoresco nome della franchigia sportiva). Le tribù dei Sauks e Maeskwaki decisero che era giunto il momento di riprendersi le terre natie, ragion per cui attraversarono il maestoso fiume del Mississippi. La spedizione, repressa nel sangue, si concluse con un esito scontato fin dal principio (sebbene durò 3 mesi).
Nonostante le buone prestazioni e le incantevoli annate in NBA, sotto la leadership di Red Auerbach, i Blackhawks furono costretti a salpare alla volta di Milwaukee, dove il nome perse ogni connotazione storica e venne accorciato nel più generico Hawks. Oltre al nome, la squadra faticò a trovare anche una sua dimensione sportiva e i deludenti risultati spinsero Mr. Kerner a preparare nuovamente i bagagli per dirigersi nel Missouri, St. Louis. Qui le cose andarono diversamente: furono stagioni gratificanti dopo i lunghi peregrinaggi, splendide prestazioni sul campo, rivalità stellare con i Boston Celtics e un anello indimenticabile nel 1958. La fama degli Hawks crebbe e il piccolo Kiel Auditorium non bastò più per contenere l’entusiasmo della folla dei tifosi. Le autorità municipali fecero orecchie da mercanti e negarono il permesso per costruire un’arena più grande. Fu una posizione netta che il management della franchigia non riuscì a digerire. Aleggiava nell’aria un nuovo trasferimento. Detto fatto! Nel 1968 la squadra venne ceduta a Tom Cousins e Carl Sandres, che decisero di spostare il team per la quarta volta in appena venti anni. Scelta finale: Georgia, Atlanta. Dopo tanti aerei e lunghi viaggi questa è, almeno finora, la dimora attuale degli Atlanta Hawks.
Charlotte Hornets
È arrivato il momento di fare outing! Pur tifando Magic e Celtics dall’inizio dei tempi, quando ero un giovane adolescente che saltellava in ogni playground disponibile della città per giocare tutti i santi giorni della settimana, il mio guardaroba sportivo non è mai rimasto orfano di una sgargiante casacca degli Hornets. Uno dei nomi che per musicalità e logo ha sempre catturato la mia personale curiosità. Uno di quei nomi che dietro al sipario della leggerezza ha saputo celare radici profonde ed evocative.
Siamo ancora una volta al cospetto del tradizionale meccanismo, ben collaudato, del concorsone per decretare il nickname del team: su un piatto della bilancia “Calabroni” mentre sull’altro nomi alquanto stereotipati come “Gold” e “Knights”. I primi che iniziarono a giocare in questa parte degli USA furono i Charlotte Spritz, nome frizzante e simpatico, allegro e dinamico. Ma il contest aveva un obiettivo preciso: fare piazza pulita del passato e partorire un nuovo nome, “Hornets” appunto. Se vogliamo saperne di più, non ci resta che salire a bordo della nostra macchina del tempo e settare un anno specifico sul dashboard della vettura, come fece Doc una volta montato sulla Delorian di “Ritorno al Futuro”.
Anno: 1780; Luogo: North Carolina, Contea di Mecklenburg. Un focolaio di impavidi indipendentisti (tra i primi Oltreoceano) si autoproclamarono “spina dorsale” di Charlotte, la più grande città della zona, incitandola ad issarsi sulle proprie gambe e far leva sull’orgoglio collettivo per chiedere, a gran voce, l’agognata indipendenza dalla Madre Patria. Più e più volte Londra guardò con scetticismo la sua colonia, fino a quando le cose iniziarono a scricchiolare sul serio. Una ruga comparve fissa sul volto dei regnanti britannici. Da quel momento numerosi emissari di Sua Maestà furono spediti in loco per monitorare il fuoco rivoluzionario dei ribelli e sedare sul nascere le spinte separatiste. Il Gen. Charles Cornwallis fu uno di questi… che, inaspettatamente, cadde vittima di un’astuta trappola concepita su misura per il suo esercito. Messo piede sul suolo cittadino, fu sommerso da una fitta grandinata di colpi tale da indurre gli inglesi a cercare riparo nel centro di Charlotte. Lì era stato allestito un secondo avamposto americano che stritolò i malcapitati in una morsa infernale. Molti soldati scapparono, altri trovarono rifugi di fortuna ma tanti altri caddero al suolo agonizzanti. Il Generale non si dette per vinto: sarebbe stato a dir poco sconveniente lasciar dilagare la macchia del perdente sulla sua carriera militare. La testardaggine prese il sopravvento e provò ripetutamente ad espugnare la città. Non riuscì mai nell’impresa. In una delle sue ultime sortite militari, ripiegando dopo l’ennesimo insuccesso, urlò amaramente a un luogotenente: “Andiamocene, scappiamo da questo fastidioso nido di calabroni”. Una vicenda fatta di libertà e desiderio, scritta con il sangue di tanti capitani coraggiosi che osarono sfidare il proprio destino fino a diventare artefici del proprio futuro. Ecco svelato il motivo per cui Charlotte è così legata al suo nome.
Nel 2000 gli Hornets presero un aereo con destinazione New Orleans, mentre a Charlotte venne creata una nuova formazione, i “Bobcats” (Gatti Selvatici). Nel 2013, però, era pronto un nuovo cambio di pelle che vide la nascita dei New Orleans Pelicans da un lato e il ritorno degli Charlotte Hornets. Questa franchigia ha ancora un ultimo asso nella manica da giocare prima di congedarsi: è stata la “casa universitaria” di un certo “uomo meraviglia” che ha saputo incantare chiunque con le sue prodezze gravitazionali, un uomo eretto a status di divinità senza se e senza ma, colui che ha riscritto buona parte della storia moderna della NBA. Rullo di tamburi e squillo di trombe: Michael Air Jordan (o come dicevan tutti, MJ).
Miami Heat
Una realtà che ignorava completamente il basket, il dispiego di ingenti risorse economico-finanziarie e una politica di espansion-team sono stati gli ingredienti comuni alla decisiva affermazione di questa franchigia. Sul finire del 1987 la NBA era alla ricerca di nuovi e (sempre) redditizi sbocchi commerciali, scandagliando in lungo e in largo il territorio nazionale alla ricerca di nuove squadre che riuscissero a rimpolpare le casse della Lega. Partì quella che venne definita come un’imponente operazione di “espansione” dei confini esistenti: Miami, Orlando e Tampa per la Florida, Charlotte in North Carolina e Minnesota (oramai rimasta orfana da molti anni per il trasferimento a Los Angeles di quei Lakers che scriveranno alcune delle pagine più spettacolari della pallacanestro). Una durissima concorrenza: cinque città per tre posti disponibili.
La NBA decise di bocciare celermente Tampa, mentre accettò di buon grado Charlotte e Minnesota. Miami e Orlando, sorelle geografiche ma acerrime contendenti, alimentarono una tale incertezza nei piani alti della Federazione che alla fine vennero scelte entrambi. Fu un vero e proprio trionfo per Miami, dato che riuscì a giocare addirittura con un anno di anticipo rispetto alle previsioni! Billy Cunningham fu l’uomo-immagine della campagna, ex stella dei Philadelphia 76ers tra gli anni ’60 e ’70 (attuale Hall of Famer), mentre il denaro venne stillato dalla ricca borsa di Zev Buffman, un magnate dell’industria televisiva, e Ted Arison, un business-man israeliano fondatore della “Carnival Cruise”. Inutile dire che la potenza di fuoco monetaria unita ad una oculata capacità manageriale permisero di raggiungere risultati organizzativi a dir poco sorprendenti.
La scelta del nome fu competenza esclusiva dei tifosi che formarono il nocciolo duro dell’American Airlines Arena. Barracudas, Beaches, Flamingos, Floridians, Palm Trees, Tornadoes, Shade, Sharks, Suntan furono alcune delle soluzione avanzate ma scartate nel giro di brevissimo tempo a favore di Heat (caldo, una parola legata alle alte temperature del sud dello Stato) e Vice (quale diretta emanazione della famosissima serie TV “Miami Vice”). Alla fine “Heat” si impose per un motivo molto semplice: “Il caldo è la prima cosa che viene in mente quando si pensa a Miami” (parole di Zev Buffman). Il logo definito all’inizio dell’avventura era simile a quello attuale, modificato nel 1999 solo nei colori, e raffigurava un’infuocata palla da basket che, entrando nel canestro, ne incendiava la retina. Il primo anno in NBA fu davvero disastroso: messi insieme (alla buona e con rapidità) una serie di Rookies di blando talento, la squadra incontrò notevoli difficoltà a focalizzare il proprio gioco, il proprio equilibrio e le fondamentali vittorie. Persero le prime 17 partite, passando alla storia con un record negativo senza eguali (battuto solo da una versione peggiore e recente dei New Jersey Nets prima dell’avvento di Prokhorov). Quella stagione venne archiviata con un risultato cumulato di 15-67. Occorreranno 16 lunghi anni prima che Miami sia capace di portare a casa un titolo assoluto (grazie alle indiscutibili doti di uno scatenato Dwyane Wade) e ventidue anni per replicarlo attraverso uno stratosferico gruppo condotto da Dwayne Wade, LeBron James e Chris Bosh… uno dei trittici più intriganti, irriverenti e devastanti di sempre.
Washington Wizards
Packers (Imballatori). Non stiamo parlando della National Football League (NFL) ma del primo nome di questa formazione all’alba dei tempi. Il motivo? Presto detto: la squadra ebbe i suoi natali a Chicago, nel 1961, dove la compagnia del Presidente in carica svolgeva questo tipo di attività (imballaggio e spedizioni). Prima che prendesse il sopravvento il seducente meccanismo del “Name the team” (sondaggi pubblici per cercare il nome più desiderato dai supporters) era pratica moto diffusa rifarsi al tessuto industriale dell’area di appartenenza. La stagione seguente, nel 1962, il loro nome mutò inaspettatamente in Zephyrs. Ma fu solo una breve parentesi. Nuovo anno, nuovo cambio. Baltimora, 1963: luogo e data del primo trasferimento. I giocatori vennero trasferiti qui e il nome divenne Baltimore Bullets (Proiettili), perché ci si allenava e si giocava nei pressi di una fonderia che produceva munizioni durante la Seconda Guerra Mondiale. Ad Abe Pollin, owner della squadra, piaceva da matti il suono della parola in inglese (Bullets) e sperava che i suoi giocatori giocassero un basket veloce e preciso come un proiettile.
Nel primo anno la squadra finì quarta su cinque della Western Division. Non proprio un bell’esordio! Salto carpiato di 10 anni ed eccoci nel 1973-74, periodo in cui la traiettoria delle Munizioni prese la direzione della capitale degli USA, Washington, originando così i Capitol Bullets. Presto, però, emerse un problema di non poco conto. Verso la metà degli anni ’90 Washington guidava la classifica delle città più violente d’America, determinato da un elevatissimo tasso di criminalità e omicidi commessi attraverso le onnipresenti armi da fuoco. A Pollin non piaceva che la sua squadra venisse associata ad un mondo fatto di violenza. Non ebbe altra scelta che pensare ad una variazione, parziale o totale, di quel troppo scomodo “Bullets”. Erano riflessioni e rimasero tali fino al 1995, quando il primo ministro israeliano, Yitzhak Rabin, grande amico del plenipotenziario Pollin, venne ucciso. Non era più possibile attendere! Venne deciso, una volta per tutte, di cambiare il nome della franchigia, e iniziò il carosello delle proposte: Dragons (i Dragoni), Stallions (gli Stalloni) e Sea Dogs (Cani Marini). Fu scelto Wizards (i Maghi) per riportare quel tocco di magia che avrebbe fatto comodo e che sarebbe stato ben lontano da riferimenti passati. Siamo davvero al capolinea o presto dovremo accettare un’ennesima variazione di tema? Diciamo pure, senza alcun problema, che Washington non sembra avere una particolare fortuna nella scelta dei nomi delle proprie formazioni sportive. Nella NFL pare ci sia una lunga controversia in merito ai “Redskins” che potrebbe sfociare in un inaspettato (e indigesto) cambiamento.
Orlando Magic
La Florida, inizialmente, apparve refrattaria al basket targato NBA. Diciamo pure che sembrò non subire da subito il fascino del gioco della palla e del canestro. Prima dei favolosi anni ’80 la città di Orlando non aveva alcuna rappresentanza sportiva nei quattro massimi campionati statunitensi (NBA, NFL, NHL e MLB). “No, grazie tante!” pareva essere la sua indolente risposta. La musica iniziò a cambiare nel momento in cui si impose all’attenzione pubblica una maxi espansione voluta dalla Lega di ben quattro squadre nell’arco di un solo biennio. Un’operazione a dir poco titanica! La febbre unita all’eccitazione (di avere una propria franchigia) salì di intensità, contagiò la popolazione ed esplose incontenibile. I lavori iniziarono ufficialmente nel 1986, quando la città dovette spuntare le proprie armi contro altre due agguerrite concorrenti del calibro di Miami e Tampa. Ma ad Orlano era giunto un duo di eccezionali capacità organizzative e gestionali, Pat Williams (ex General Manager dei Philadelphia 76ers) e Jim Hewitt (noto banchiere dalle spiccate doti finanziarie).
Tanto per dare una vaga idea di chi sia Mr Williams diremo solo che è stato uno dei “Mamma Santissima” della pallacanestro mondiale: gente come Pete Maravich (scelto nel 1970), Darryl Dawkins (scelto nel 1975), Julius Erving (acquisito nel 1976 e poi campione NBA nel 1983 coi Sixers), Maurice Cheeks (scelto nel 1978) e Moses Malone (acquisito nel 1982 e campione NBA in coppia con Erving l’anno successivo) sono alcuni dei nomi monumentali passati tra le sue mani. C’è da far girare la testa! Da queste due menti geniali prese corpo un’aggressiva “marketing campaign”: la squadra ancora non esisteva, i giocatori erano sagome indistinte all’orizzonte, il coach una semplice definizione scritta su un pezzo di carta… eppure, nonostante ciò, Williams e Hewitt riuscirono a gasare le folle, versando massicce dosi di adrenalina nelle loro vene, fino a convincere mezza popolazione a versare 100 dollari come acconto per la imminente campagna abbonamenti. L’esperimento riuscì fin tropo bene: finalmente Orlando ebbe una vasta platea di tifosi che bramavano un proprio team e desideravano veder giocare i propri beniamini su un parquet tirato a lucido. Era giunto il momento di trovare un nome ad effetto.
L’Orlando Sentinel, uno dei quotidiani di maggiore tiratura dell’epoca, diede il via ad un contest: tra le quasi 4.300 proposte avanzate vennero incoronate quattro finaliste, “Tropics” (evocativo dello splendido clima della Florida), “Juice” (per le redditizie industrie di agrumi della zona), “Magic” (tributo a DisneyWorld, il parco di divertimenti per definizione) e “Heat” (poi impiegato in modo più convincente da Miami). Tra i grandi esclusi “Aquamen”, “Astronauts”, “Floridians”, “Orbits”, “Sentinels” e addirittura “Challengers” (carino, certo, ma troppo legato allo shuttle tragicamente schiantatosi l’anno precedente). Sul finire del 1987 la Lega scompigliò le carte in tavola e decise di scartare Tampa e accogliere le candidature di Miami, Charlotte, Orlando e Minnesota. Ma i Magic, nonostante fosse già tutto pronto, dovettero attendere due anni per il loro debutto in NBA. Era il 4 Novembre 1989 quando Matt Goukas sedette nella cabina di comando e l’Orlando Arena venne assaltata da orde di appassionati, tifosi o semplici curiosi. Nel 1995-1996 arrivarono le prime Finals grazie al portentoso duo Penny Hardaway-Shaquille O’Neal (0-4 contro gli Houston Rockets). L’anno successivo i Magic si fermarono alla finale della Eastern Conference contro i Chicago Bulls di Jordan, Pippen e Rodman. Nel 2009 le seconde Finals con Dwight Howard: altra sconfitta, 1-4 contro i Lakers di Kobe Bryant. Qualcosa mi dice che presto sentiremo parlare di questo team dal potenziale esplosivo, solo parzialmente sfruttato finora!
articolo molto interessante, è sempre bello sapere la storia delle squadre!