Satelliti, pianeti, corpi celesti e ammassi globulari: la folle corsa del nostro razzo (della curiosità) continua, rapida e insaziabile, nell’universo della NBA. Dopo aver messo a ferro e fuoco la galassia della Eastern Division è il momento di dirigersi verso Ovest. Il navigatore di bordo punta dritto alla Southwest Division. Are you ready to go?
WESTERN CONFERENCE – Southwest Division
Dallas Mavericks
Vedi “Dallas” e leggi “Mavericks”: un binomio imprescindibile, due facce della stessa medaglia. Fondati nel 1980, il nome saltò fuori da un fan contest radiofonico a cui parteciparono numerosissimi sportivi e appassionati di Big D. La scelta non fu affatto casuale: il termine, spesso abbreviato in Mavs, rimanda ad una dimensione dal forte sapore texano che permette di tuffarsi nella vastità e nello spirito ribelle di questa terra. “Maverick” significa “capo di bestiame privo di quel marchio identificativo” che ne definisce la proprietà, quindi (per estensione di concetto) “persona libera, senza costrizioni, controcorrente”. Occorre fare un rapido tuffo nel passato. Inizio Ottocento. Sam Maverick era un giovane scapigliato appena trasferitosi nel Texas dopo il conseguimento della Laurea in Legge. Importante proprietario terriero e politico di primo pelo, divenne Sindaco di San Antonio e fu uno dei primi firmatari della Carta di Indipendenza. La leggenda narra, tra i rivoli della finzione e le insenature della realtà, che divenne un grande allevatore di bovini per un puro caso della vita: uno dei suoi tanti debitori, oramai in bancarotta, decise di onorare la sua pendenza economica tramite la cessione di 400 bovini… che furono immediatamente liberati da Sam nelle sue terre, senza ricorrere alla barbara tradizione di marchiare a fuoco le cosce o le natiche dei poveri animali. Non rendendosene conto, il giovane Maverick diede i natali ad un nome che sarebbe stato consegnato alla storia come sinonimo di “indipendente e anticonformista”. Tratti salienti che ben racchiudono (da oltre trent’anni) la verve audace e irriverente del basket professionistico di Dallas. Carla Springer, giornalista freelance, fu estratta a sorte da una rosa di oltre quaranta persone che proposero questo nome (battendo alternative come Wranglers o Express) al fine di condividere le ragioni della sua scelta: “Rappresenta lo stile indipendente e appariscente della gente di Dallas!” Poche parole che fanno subito centro! In brevissimo tempo il nome divenne parte integrante del lessico quotidiano e del tessuto sociale cittadino. Mr. Maverick è stato più volte osannato sul piccolo e sul grande schermo: dalla storica serie western degli anni ’50 (interpretata da James Gardner) alla famosissima pellicola “Top Gun” (dove un giovane Tom Cruise padroneggiava la scena con questo nome) fino ad arrivare al fortunato film di Mel Gibson risalente alla metà degli anni ’90. “Maverick” ha saputo unire, mai come in questa squadra, il presente al passato in modo indissolubile: semplicemente perfetto per il fondatore Donald Carter (eccentrico personaggio dall’inseparabile Stetson, il cappello da cowboy presente fino al 2001 anche nel logo), quanto ideale per l’attuale Mark Cuban (un uomo al di fuori di ogni schema). Nel 1978 il simpatico Mr. Carter, businessman nel campo dell’arredamento, non conosceva nulla del mondo del basket professionistico. Ma “una promessa é una promessa”, soprattutto se formulata alla propria moglie, Linda Jo. Pegno da pagare: una franchigia sportiva nuova di zecca. Era lei la patita di sport in famiglia, essendo stata una ex giocatrice (promettente) della Duncanville High School. Ma un uomo d’affari non fa mai nulla per nulla. Donald aveva fiutato l’affare che si celava dietro, tant’è che riuscì a rivendere il suo gioiellino di franchigia, sedici anni dopo, ad un prezzo dieci volte superiore. Di sicuro un gran bel regalo per la Signora ma soprattutto un redditizio affare per le sue finanze! La creazione di questo team fu resa possibile grazie alla collaborazione di un noto partner finanziario, Norm Sonju, già presidente dei Buffalo Braves (pronti a decollare per la California e diventare i San Diego Clippers). Il loro incontro venne favorito da Robert Folsom, l’allora Sindaco di Dallas, che pochi anni prima era stato uno dei proprietari dei Dallas Chaparrals (della ABA), trasformatisi successivamente nei più famosi e temuti San Antonio Spurs. Le prime strategie ebbero come obiettivo i Bucks e i Kings, con la speranza di spostarli nel Texas. Ma la NBA si oppose con assertiva decisione. Questa opzione non era praticabile, arrivederci e grazie! Si dovette attendere una politica di expansion-team, promossa dalla Federazione, e costò la bellezza di 12 milioni di dollari. Giugno 2011, trentadue anni dopo, Donald Carter (da proprietario di minoranza) insieme alla moglie Linda hanno alzato per primi il trofeo intitolato proprio a quel Larry O’Brien che, durante l’All-Star Game del 1979, annunciò l’arrivo di una nuova franchigia a Dallas. Bellissimo gesto di Mark Cuban. Anticonformisti anche in questo!
Houston Rockets
Una delle franchigie più coriacee (sotto il profilo della resistenza) e gradevoli (sotto il profilo del gioco). James Harden, Dwight Howard, Ty Lawson, oggi, fanno letteralmente innamorare qualunque appassionato di basket, a prescindere dal sesso, dall’esperienza e dalla fede sportiva. Colori sociali: rosso e bianco che si alternano, come in un’allegra danza cromatica, a seconda delle partite disputate in casa o in trasferta. Due titoli NBA vinti, quattro volte campioni di Conference e cinque Division portate a casa. Oltre ad aver ospitato, tra le sue fila, uno dei giocatori più famosi al mondo, Hakeem Olajuwon. Non c’è che dire, davvero un bel bottino! Ma come ebbe inizio un sogno del genere? Nel 1967 il termine “Rockets” venne accostato alla città di San Diego, ma dopo appena tre anni il Texas diventò la loro dimora stabile. Robert “Bob” Breitbard rilevò la squadra con grande celerità, sborsando una cifra di diversi milioni di dollari. Modesto atleta e ancor più modesto allenatore, Bob era una vecchia volpe dall’olfatto iper-sviluppato per gli affari e divenne, in brevissimo tempo, una vera e propria icona di questo sport da “dietro la scrivania”, sfoggiando un coraggio mai palesato in campo. La prima esperienza in NBA venne disputata nella stagione 1967-1968, lo stesso periodo in cui la ABA (American Basketball Association) nacque come Lega rivale. Bob fondò prima la “San Diego Hall of Champions” e poi, nel 1966, si adoperò per dare alla luce la “San Diego Sport Arena” (considerata il top tra gli impianti con oltre 15mila posti). I Rockets diventarono la dodicesima squadra della NBA ad affermarsi sotto l’ala protettrice dell’espansione voluta dalla Lega (assieme ai Seattle Supersonics) e alle incredibili giocate di un tale di nome di Pat Riley. Prima di conquistare la città di Houston, la squadra fece la sua intima conoscenza con il sole e il mare di San Diego ed il nome fu designato dalla stragrande maggioranza dei fans che parteciparono, entusiasticamente, al solito contest “name the team” (la presenza della General Dynamics, una delle più importanti società specializzata in forniture militari del mondo e in particolare nella produzione dei razzi Atlas, fu determinante). Un attimo, urge un chiarimento! Stando così le cose, allora, non é vera la leggenda che vuole i “razzi” come nome obbligatorio per una città che era (ed è tutt’oggi) sede del monumentale “Lyndon B. Johnson Space Center” (ente della NASA per le attività spaziali e aeronautiche)? In realtà “Rockets” venne scelto per il suono deciso della parola e la speranza sognante che i giocatori fossero dei veri motori propulsivi tali da traghettare la squadra nelle prime posizioni del campionato. Un nome che fu precursore degli anni avvenire, una scelta che seppe scrivere un pezzo di storia prima che si verificasse, una sorta di profezia auto-avverante. I primi passi di Houston nella NBA, tuttavia, non furono incoraggianti: 67 sconfitte, un record più che negativo nella stagione di esordio. Le cose andarono male anche l’anno successivo e il pubblico non riuscìa garantire quegli introiti che ci si attendeva. Nel 1971, dopo aver ospitato l’All Star Game, Big Bob fu costretto a cedere la franchigia al gruppo Texas Sports Investments (gestito dal broker Wayne Duddleton e dal banchiere Billy Goldberg) per quasi 6 milioni dollari. La transazione avvenne con una velocità incredibile, a tal punto che si registrarono non pochi problemi ad avere le casacche con cui scendere in campo per disputare la prima partita della nuova gestione. Nonostante le rossee attese di Duddleton, ben supportate da numerose indagini di mercato condotte in modo maniacale , il fascino dei Rockets era come un orologio svizzero da esposizione, perfetto in ogni ingranaggio ma incapace di entrare in funzione. A Waco, contro i San Antonio, furono contati appena 759 spettatori paganti! A dir poco incredibile se si pensa al team di Houston degli ultimi decenni.
Memphis Grizzlies
I Grizzlies fanno il paio con i Raptors. No, non vogliamo scivolare nell’elencazione darwiniana di specie animali dei luoghi più suggestivi della frontiera americana. Piuttosto vogliamo porre l’attenzione sulle due squadre “straniere” della NBA, recentemente affermatesi come risultato di una politica espansiva delle franchigie esistenti. La location di partenza fu Vancouver, a cui si legò indissolubilmente il nome affibbiato alla squadra: il Grizzly. L’orso grigio è stato da sempre un elemento fondante della fauna della British Columbia. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che tale animale fosse stato scelto come mascotte della neonata squadra. Un nome ed un logo che, pagina dopo pagina nel lungo racconto della storia di questo team, sono entrati così in profondità nel DNA che, nonostante il trasferimento nel Tennessee (2001), non si é mai discussa l’eventualità di una sua modifica. L’avvio canadese, come si può facilmente immaginare, non fu dei più brillanti, ragione per cui il noto uomo d’affari Micheal Heisley avanzò l’ipotesi di scegliere una nuova cornice metropolitana. Venne lanciata un’opzione ostile su Memphis, avendo la meglio su altre candidature blasonate come Louisville e New Orleans. In questa fase delicata lo stesso businessman formulò una seconda proposta: con un’offerta tintinnante di 120 milioni di dollari da parte della FedEx (Federal Express) suggerì di inserire il nome dello sponsor nel nome della franchigia, creando il primo esempio di manipolazione genetico-commerciale nel basket americano (Memphis Express). Diciamocela tutta, al di là delle esigenze di marketing, un’idea del genere trovava la sua ragion d’essere nel fatto che l’orso non era associabile alla città di Memphis. La risposta della NBA fu concisa come poche: un secco no, senza diritto di replica! La motivazione era da ricercare nel fatto che i tifosi si erano identificati troppo nel termine “Grizzlies” e l’ipotesi di una variazione fu liquidata come oltraggiosa. In aggiunta, in quel periodo, la Lega non era ancora pronta per entrare nel meccanismo di quelle sponsorizzazioni “dominanti” da imprimere il marchio di fabbrica alle squadre militanti. La FedEx, pertanto, dovette “accontentarsi” di dare il nome all’arena di gioco (il FedExForum) che andò a sostituire la storica Pyramid Alena. Il nome “Grizzlies” é stato l’unico ad aver vinto due contest differenti in due luoghi geograficamente distanti tra loro. Va ricordato, però, che il primo nickname affibbiato a questa franchigia, per volontà del proprietario Arthur Griffiths, fu Mounties (derivante da “Roy al Mounted Canadian Police”, il caratteristico corpo di polizia a cavallo canadese)
New Orleans Pelicans
Il simbolo di questa squadra è un bel pellicano. Non preoccupatevi, non siete stati gli unici a pensare che un uccello del genere, poco aggressivo, potesse avere scarsa relazione con un gioco dinamico e rutilante come quello della pallacanestro. Ma il mercato sportivo d’Oltreoceano, in netto contrasto con la prospettiva europea, ha dimostrato nel tempo di saper sfornare delle bizzarie tanto inaspettate quanto vincenti. Il Pellicano, dicevamo, simbolo per eccellenza della Louisiana, ha il record di essere diventato il nickname più recente nella storia della NBA (2013). Al tempo stesso, però, é anche il più antico. Possibile? Ebbene sì! Le sue origini sono centenarie: i New Orleans Pelicans spiccarono il loro primo volo tra il 1887 e il 1959 e, per una stagione, nel 1977, furono una squadra di baseball della città, che partecipò ad una lega minore, la Southern League (nel 1910 vinse addirittura il titolo trascinata dall’esterno Joe Jackson). La fondazione di questa franchigia avvenne nel 1988 con il nome di “Charlotte Hornets”. Il tempo di accomodarsi, giocare divertendo, entrare nel cuore di tifosi e fare i bagagli per trasferirsi a New Orleans. Stesso nome ma nuova città. Nacquero i “New Orleans Hornets”. Ma anche qui ci fu appena il tempo necessario per adattarsi e fare nuovamente un biglietto per “altrove”. “Abbiamo perso 15 milioni di dollari quest’anno, l’anno prossimo rischiamo di perderne 20”, sentenziò senza paura Ray Woolridge, uno dei proprietari della franchigia. I dati di ritorno economico di un pubblico quasi inesistente erano in caduta vertiginosa. Il voto sfiorò l’unanimità (28-1): gli Hornets si trasferirono in Louisiana. Ma non finisce qui! L’evento catastrofico Katrina diede un’ulteriore mano al peregrinare di una squadra già di per sé raminga. Fu chiesta e ottenuta ospitalità ad Oklahoma City, da cui il nome (non di grande fascino) “New Orleans/Oklahoma City Hornets”. Nel 2013 il cordone ombelicale con un passato dal sapore oramai inopportuno e stantio venne reciso e, in occasione del nuovo passaggio di proprietà, videro la luce i “New Orleans Pelicans”. Tom Benson, patron dei New Orleans Saints della NFL fin dal 1985, nell’Aprile del 2012 rilevò la franchigia dalle mani della NBA e annunciò ufficialmente il cambio di denominazione, lasciando che il nome Hornets tornasse (doverosamente) alla tradizione di Charlotte. Furono presi in considerazione oltre un centinaio di nickname. Un’impresa titanica, davvero ardua, per arrivare a individuare quello che avesse maggiore capacità di presa sul pubblico. Benson disse: “Il nostro Stato è rimasto duramente colpito negli ultimi anni e ha dimostrato grande resistenza, capacità di lottare e tenacia per rialzarsi. In questo senso il pellicano riflette la nostra cultura”. Quindi una scelta all’apparenza divertente celava, in realtà, un animale rappresentativo dell’area geografica e un radicato significato in termini di determinazione e cambiamento. L’inizio di un nuovo inizio, il coraggio di alzarsi dopo essere caduti, il desiderio di voltare pagina nonostante la tempesta Katrina, la determinazione ad affrontare la marea nera del 2010 causata dal disastro ambientale della piattaforma petrolifera DeepWater Horizon (le immagini più toccanti nei telegiornali dell’epoca furono numerosi pellicani indifesi completamente ricoperti da un’aliena pellicola chimica). Col senno di poi si può serenamente affermare che, se da un lato appariva estremamente difficile individuare un nome perfetto come lo era stato “Jazz” negli anni ’70, di certo appariva oltremodo complicato ricercare qualcosa che avesse una ragion d’essere più intrinsecamente profonda di “Pelicans”.
San Antonio Spurs
Boscaglia spinosa, polvere, caldo e stivali dagli scintillanti speroni argentati. É questo a cui rimanda il termine “Spurs” dei San Antonio, Texas. Incredibile ma vero questa franchigia nacque nel 1967 a Dallas, ben lontano da San Antonio, in una città che divenne, con il tempo, una delle storiche rivali del Big Three Derby texano. Scendiamo un attimo nei dettagli (é lì che si annida il diavolo) e cerchiamo di capire perché i “predecessori” ricevettero in dono il nome di “Dallas Chaparrals”. Qualcuno sarebbe tentato di rifarsi al consueto concorsone pubblico sponsorizzato da qualche radio o quotidiano locale. Stavolta no! 1967, Dallas, Chaparral Room dell’hotel Sheraton: questo il tempo e il luogo in cui vide la luce la nuova squadra (prozia dei Spurs) della ABA (American Basketball Association). Si potrebbe pensare che nel Texas, quanto a fantasia, erano messi piuttosto male. La dirigenza, per cercare di risolvere l’annosa questione di un nome che fosse malizioso e intrigante, si riunì più volte proprio in quella sala. Diverse sedute dopo e numerose ore spese a riflettere non fruttarono alcuna idea interessante. Quindi si cercò di applicare la massima secondo cui “ciò che é maggiormente evidente, seppur semplice e all’apparenza banale, può rappresentare la soluzione ideale”. Da lì ad impiegare “Chaparral” il passo fu decisamente breve. Non occorre liquidare, però, questo processo decisionale come il risultato di un atto dittatoriale, incentrato unicamente al raggiungimento di un traguardo nel modo più veloce possibile, infischiandosene del risvolto commerciale che avrebbe potuto generare. Il termine spagnolo presentava una correlazione diretta con la realtà locale: una specie di sottobosco che caratterizza i paesaggi mediterranei, molto diffusi nei territori del Texas e della California. Aggiungiamo un altro dettaglio di interessante curiosità: “chaparral” è anche il famoso “uccello veloce come il vento”, capace di scomparire all’istante e apparire dopo pochi secondi a centinaia di metri di distanza, quello che lo sfortunato Willy non è mai riuscito ad acciuffare in tante puntate del cartoon ambientato nei canyon americani (Road Runner e Willy il Coyote). Misceliamo insieme entrambe le motivazioni ed ecco servito un cocktail esplosivo, nome e mascotte della nuova franchigia: un uccello, rapido e scattante, intento a giocare con la palla da basket! Risultato che, quando la squadra si trasferì a San Antonio, fu sottoposto ad una revisione che ne alterò nome e logo. Primi anni del 1970, il pubblico sembrava non conferire il giusto tributo alla squadra. Senza troppe lungaggini, venne decretato il “libera tutti”, una nuova città con una nuova linfa vitale. La scarsa affluenza al Moody Collins di Dallas diventò un cancro su cui intervenire chirurgicamente per recuperare il terreno perduto. Una manovra varata in emergenza fu quella di aggiornare il nome in “Texas Chaparrals”, con l’evidente convinzione che l’introduzione dello Stato avrebbe sortito un effetto galvanizzante sull’animo locale. Il risultato fu deludente! L’ultimo atto era stato recitato, il sipario era calato. Non restava che cedere la franchigia ad un gruppo di imprenditori di Sant’Antonio, capitanati dal coraggioso Angelo Drossos e dall’impavido Red McCombs. La prima manovra fu quella che in realtà venne scartata ab origine: indire un concorso a cui far partecipare la cittadinanza. Le ipotesi che arrivarono a disputarsi la finale furono Spurs (speroni) a Gunslingers (pistoleri), nomignoli di chiara matrice texana! Il secondo provvedimento fu quello di modificare la mascotte. Fu così che l’uccello-corridore venne sostituito dalla oramai storica “U”, mentre il bianco, blu e rosso vennero rimpiazzati dal nero e argento. I San Antonio Sports sono stati capaci di sopravvivere alla imponente fusione tra la ABA e la NBA del 1976, riuscendo ad imporsi in modo sempre convincente. Occorrerà attendere quasi un trentennio per conquistare il primo titolo di campioni assoluti. Da lì seguirono diversi anni in discesa. La fine degli anni 90 fu ad appannaggio della coppia Robinson-Duncan, dominatori dello spazio aereo “sotto canestro” dei vari parquet statunitensi. E presto i titoli divennero cinque. A detta di molti esperti del settore, i San Antonio Spurs sono stati riconosciuti come un’organizzazione perfetta, un efficace panzer tedesco che ha saputo procedere in modo strutturale e sistematico, seppur lontano dai riflettori, fino alla conquista della loro meritatissima fama.