Pochi giorni fa la National Hockey League ha comunicato ufficialmente che il prossimo campionato non si fermerà, nel febbraio 2018, per consentire a tutti i suoi giocatori di partecipare alle Olimpiadi invernali, in programma in Corea del Sud dal 9 al 25. Una decisione per certi versi inattesa (anche se non del tutto), che di fatto svuoterà di ogni contenuto tecnico il torneo olimpico di hockey, una delle competizioni più attese e spettacolari dell’intero programma a cinque cerchi. Ve le immaginate Canada, Usa, Russia, Svezia, Finlandia, Repubblica Ceca e Slovacchia senza nessuno dei loro professionisti sotto contratto in NHL?
Le motivazioni di questa decisione sono puramente economiche: ogni anno, a febbraio, senza NFL e MLB, la NHL si trova a dividere il palcoscenico (e i relativi faraonici guadagni) dell’intero pubblico televisivo nordamericano con la sola NBA, e non vuole rinunciarci, come invece accaduto in passato, infischiandosene furbescamente della volontà dei giocatori, largamente favorevoli ad andare alle Olimpiadi (specialmente i non-statunitensi). La furbata sta nel fatto che ufficialmente la NHL non ha vietato nulla a nessuno: ha semplicemente detto che il suo calendario non terrà conto delle Olimpiadi, come se non esistessero, scaricando sulle spalle delle singole franchigie la decisione di concedere il permesso ai propri giocatori di rispondere alle convocazioni delle rispettive nazionali.
Le squadre, a loro volta, non avrebbero nulla in contrario, da un punto di vista teorico, ma un mese di stagione regolare NHL equivale a una dozzina circa di partite per ciascuna franchigia, quindi chi dovrebbero mandare in campo in quelle 12 gare? Dovrebbero selezionare (e pagare) un secondo roster solo per un mese? E chi si farebbe carico dei costi aggiuntivi? E se aderissero solo alcune squadre e altre no, non si falserebbe l’intero campionato con un mese di risultati sballati che potrebbero poi pesare in modo decisivo nella corsa ai playoff anche dopo il ritorno delle stelle? Facciamo l’esempio che i Pittsburgh Penguins (i campioni in carica) diano il permesso ai vari Crosby, Malkin, Fleury, Kessel etc. etc. di assentarsi per un mese, e che per sostituirli si facciano anche carico di altri 20 stipendi di giocatori presi dalle università o dalle leghe minori. Proseguiamo nel nostro esempio, ipotizzando che invece Colorado, Detroit, Arizona e Toronto neghino il permesso ai loro professionisti, rimanendo con il loro roster-tipo. Se a febbraio i “Penguins-bis” li affrontassero, perderebbero certamente tutte le partite, caricando il loro record di un numero di sconfitte difficile da recuperare nella corsa ai playoff.
Possibile che i Giochi Olimpici, che nell’antica Grecia facevano fermare anche le guerre, ora non riescano a scalfire il sistema dello sport professionistico americano? Si preferisce rischiare uno scontro frontale con l’Associazione Giocatori, scontro dalle conseguenze imprevedibili, piuttosto che modificare una volta ogni quattro anni il calendario della stagione regolare, magari anticipandone l’inizio o riducendo del 10% il numero delle partite? Si finge di ignorare che per quasi tutti i giocatori (canadesi in primis) le Olimpiadi sono un appuntamento importante, si finge di non vedere quanto questi tengano ad indossare la propria maglia nazionale e, magari, a vincere qualcosa indossandola. E, paradosso dei paradossi, la miglior prova di questo è la World Cup, torneo per nazioni organizzato proprio dalla NHL, in cui si scatenano battaglie colossali, risse e scontri violenti tra giocatori fino al giorno prima compagni di squadra in campionato, ma in quel momento fieri portatori della loro identità nazionale.
La speranza è che, in questi mesi che ci separano dalle prossime Olimpiadi invernali, l’Associazione Giocatori prenda una posizione talmente netta e intransigente da costringere la NHL a tornare sui suoi passi e spegnere le proprie luci per un mese. Ma scommettiamo che non succederà? Saranno anche le regole del marketing, ma che tristezza vedere le Olimpiadi zoppe.