Ci siamo, finalmente. Dal prossimo weekend nella National Football League si cancella il prefisso “pre” davanti alla parola “season” e si inserisce “regular”: in poche parole, da oggi si fa sul serio. E in nessun altro sport professionistico al mondo si fa sul serio come nella NFL: la stagione di ogni squadra dura solo 16 partite, per cui ognuna di queste viene giocata con una concentrazione, un’intensità e, inutile negarlo, una violenza senza pari. Gli stipendi sono faraonici ma le carriere brevi, o più spesso brevissime: un’enorme macchina dello show-business che dona oro e gloria immortale ai suoi eroi ma che chiede al contempo a tutti, protagonisti e comprimari, un prezzo durissimo da pagare in termini d’integrità fisica.
Nel football c’è spazio per tutti, grandi e piccoli, pesi massimi e leggeri, doti tecniche e atletiche, dipende solo dal ruolo: running back e wide receiver degni della finale olimpica dei 100 metri cercano di sfuggire alle prese assassine di lottatori di sumo, quarterback dotati della lucidità di uno scacchista e del fisico di un decatleta trovano in 3 o 4 secondi un compagno a cui lanciare il pallone, per non essere abbattuti dagli avversari con il pallone ancora in mano e quindi perdere terreno. Il tutto, accompagnato da una ferrea disciplina tattica e applicazione a menadito degli schemi.
Il football è la trasposizione sportiva dell’Iliade, così come il baseball lo è dell’Odissea: nel football ciascuna delle due squadre a turno indossa i panni di Achille e di Ettore, provando qualsiasi cosa per violare le mura avversarie mentre gli altri resistono strenuamente, metro dopo metro, provando a respingere indietro gli invasori fin dentro il mare che li ha condotti lì.
Il football NFL non è immune da pecche (vedi appunto la violenza dei placcaggi o il doping), è evidente, ma solo chi non lo conosce o chi non lo vuole capire può ignorare o peggio disprezzare questi gladiatori dei tempi moderni.