Pubblico il testo integrale della prima puntata di Sport One andata in onda su RadioGoal24.
Mohammed Alì, il più grande
Il pugile, l’uomo, le sue scelte, il suo coraggio
Nel momento stesso in cui ti danno un soprannome, nello sport, vuol dire che sei già qualcuno, nel bene o nel male. Se in più hai l’egocentrismo di dartelo da solo, e di scegliertene uno così impegnativo, “il più grande”, o sei un pazzo visionario o sei davvero il migliore.
Mohammed Alì (o Cassius Clay, fino al 1964) è il pugile che ha rivoluzionato il modo di combattere tra i pesi massimi, è quello che ha scritto con i suoi guantoni (e la sua lingua) alcune tra le pagine più belle nella storia del pugilato, è ancora oggi lo sportivo più amato e conosciuto al mondo. Non c’è dubbio, quindi, che mai soprannome fu più profetico.
Ma nel raccontare “the greatest” non possiamo, e non dobbiamo, dimenticare l’uomo, quello che anche giù dal ring non ha mai smesso di combattere: per i diritti della sua razza, per la pace, per i malati di Parkinson come lui, arrivando, come vedremo, a pagarne spesso il prezzo sulla propria pelle.
La sua eccezionale storia inizia il 17 gennaio 1942, quando nasce a Louisville, nel Kentucky; la boxe arriva a 12 anni, ma non per sfuggire alla povertà (come per la maggior parte dei suoi colleghi) ma per la voglia di riparare un torto subito, il furto della sua bici. Joe Martin, il poliziotto che lo aiuta, sarà il suo primo allenatore, affiancato in un’altra palestra dal più professionale Fred Stoner.
La carriera dilettantistica è fulminante: 195 vittorie e sole 5 sconfitte in 5 categorie diverse, 6 titoli del Kentucky, 2 titoli statunitensi e l’oro olimpico a Roma, nel 1960, tra i mediomassimi. Proprio al ritorno dalle Olimpiadi, alla vigilia del suo passaggio al professionismo, Alì compie il primo dei gesti celebri della sua storia personale, gettando la medaglia d’oro nel fiume Ohio dopo essere stato cacciato da un ristorante a causa del colore della sua pelle.
Ma al di là delle statistiche, a impressionare gli esperti e il pubblico è il modo in cui Alì ottiene le sue vittorie: è dotato di una strabiliante velocità di piedi e di braccia e, grazie ad agilità e riflessi davvero fuori dal comune, combatte spesso con le mani abbassate, schivando i colpi degli avversari semplicemente con i movimenti del tronco.
Divenuto professionista tra i pesi massimi, il peso specifico dei suoi pugni viene appesantito dall’allenatore che lo affiancherà per tutta la carriera, Angelo Dundee, mentre un altro suo fedele amico, Drew “Bundini” Brown, conierà la definizione più bella del suo modo di boxare: “Vola come una farfalla, punge come un’ape”.
La lingua di Alì diviene presto celebre quanto il suo modo di boxare: già da dilettante, infatti, ha l’abitudine di predire, con una sorta di rap “ante litteram” in versi, il round in cui l’incontro finirà, ovviamente a suo favore. Manterrà sempre questo rito, assieme a una serie infinita di battibecchi e stilettate studiate ad arte per innervosire gli avversari. Il suo esordio da professionista avviene il 29 ottobre 1960 contro Tunney Hunsaker, battuto ai punti, ed è l’inizio di una cavalcata vincente di 19 incontri, con 15 ko, che vedrà sconfitti, tra gli altri, Sonny Banks (il primo ad atterrare Alì prima di subire un ko alla quarta ripresa), il vecchio campione Archie Moore (che diverrà poi suo allenatore) e il temibile inglese Henry Cooper, arresosi per ko tecnico al quinto round dopo averlo però atterrato nella quarta ripresa.
Nel 1964, al termine di questa serie, Alì è l’ovvio candidato a sfidare il campione del mondo in carica dei pesi massimi, Sonny Liston.
Nel frattempo, abbraccia la fede musulmana, divenendo seguace dei malvisti Black Muslims e dei loro leader carismatici, Elijah Muhammad e Malcolm X. Contestualmente, Cassius Clay rinuncia al suo “nome da schiavo”, divenendo dapprima Cassius X e poi Mohammed Alì.
Alì annuncia la sua decisione di cambiare nome il giorno dopo aver conquistato il titolo WBA e WBC con Liston, ritiratosi alla settima ripresa. Questa scelta gli attirerà contro non poche antipatie da parte dell’America bianca e darà il via a una campagna denigratoria nei suoi confronti, che diverrà aperta impopolarità quando Alì rifiuterà di arruolarsi per combattere in Vietnam. Il primo risultato, intanto, è quello di vedersi sfilare il titolo WBA per un cavillo contrattuale (la cintura verrà assegnata a Eddie Terrell).
Il 25 maggio 1965 ha luogo, con in palio il titolo WBC, la rivincita con Liston, stavolta spedito al tappeto al primo round dal celebre “pugno fantasma”, un colpo talmente veloce da lasciare spazio per molti anni a sospetti di combine da parte dello sfidante, sempre alle prese con problemi economici.
Lasciatosi alle spalle Sonny Liston, Alì difenderà con successo per 7 volte il titolo WBC, arrivando a sfidare il 6 febbraio del ’67 proprio Terrell, che avrà la pessima idea di offenderlo rifiutandosi di chiamarlo col suo nuovo nome e subirà per questo 15 round di crudele vendetta.
Riunificato il titolo dei massimi, Alì può però difenderlo una sola volta, contro Folley (mandato ko al settimo round), prima di essere condannato a 5 anni di carcere per renitenza alla leva e privato della licenza di pugile, e con essa di tutti i titoli iridati.
Il 28 aprile 1967, infatti, presso il Centro di Istruzione dell’Esercito a Houston, Texas, Alì rifiuta per tre volte di rispondere alla chiamata del proprio nome per iniziare l’addestramento che lo avrebbe portato a combattere in Vietnam. Alì si dichiara obiettore per motivi religiosi, aggiungendo la celebre frase: “Non ho nessun motivo per combattere i Vietcong, nessuno di loro mi ha mai chiamato negro”.
A 25 anni, al culmine della forma fisica e del successo, Alì pagherà la sua coerenza con l’impossibilità di salire sul ring per 3 anni, ma nel frattempo diventerà un eroe e un simbolo per il movimento pacifista, la cui voce diverrà sempre più forte nell’opinione pubblica statunitense.
Nel giugno del 1970 la Corte Suprema stabilisce definitivamente che il credo religioso può essere una valida giustificazione per l’obiezione di coscienza, chiudendo di fatto ogni pendenza di Alì con la giustizia USA. Il ritorno sul ring è datato 26 ottobre 1970, ad Atlanta, contro Jerry Quarry, con una vittoria per ko tecnico alla terza ripresa, seguito da un altro test vincente, contro Oscar Bonaveña. Malgrado lo scetticismo degli addetti ai lavori, dopo due soli incontri dal rientro in attività Alì ottiene subito di sfidare il campione del mondo, Joe Frazier, subito definito “troppo brutto e stupido per essere un campione”.
Il primo dei tre appassionanti match che vedranno di fronte Alì e Frazier si svolge al Madison Square Garden di New York l’8 marzo 1971 e mette a confronto due pugili entrambi ancora imbattuti. L’onta della prima sconfitta toccherà ad Alì, finito al tappeto nel quindicesimo e ultimo round e battuto infine ai punti con verdetto unanime. E’ un combattimento epico e senza tregua tra due stili contrapposti: la velocità e l’allungo di Alì contro la potenza esplosiva a corta distanza di Frazier, e al termine entrambi i pugili devono ricorrere a cure ospedaliere.
Dopo aver incassato il primo stop della carriera, Alì infila 10 vittorie consecutive contro pugili di caratura inferiore fino a subire, inattesa, la sua seconda sconfitta, per mano di Ken Norton il 31 marzo 1973. L’ex marine lo coglie impreparato al primo round rompendogli la mandibola con un pugno. Alì resiste al dolore per 12 riprese ma alla fine i giudici lo dichiarano perdente ai punti.
Sei mesi dopo ha luogo la rivincita, vinta ai punti da Alì, che si prepara alla seconda sfida con Frazier, nel frattempo detronizzato brutalmente da George Foreman con 6 atterramenti in 2 riprese. Il fatto che non ci sia un titolo mondiale in palio non sminuisce il fascino della rivincita tra i due campioni, vinta stavolta da Alì ai punti dopo un incontro condotto sempre in testa. E’ ormai evidente che le strade del campione in carica Foreman e di Alì siano destinate a incrociarsi.
Lo storico incontro tra Alì e Foreman ha luogo il 30 ottobre 1974 a Kinshasa, in Zaire, e molti anni dopo, nel 1997, verrà perfino narrato in uno splendido documentario di Leon Gast intitolato “Quando eravamo re”, che vincerà perfino un premio Oscar.
Il match, organizzato dal futuro re della boxe mondiale Don King, si arricchisce di contenuti ideologici già settimane prima dell’inizio: malgrado i due pugili siano entrambi di colore. infatti il popolo zairese vede solo in Alì il simbolo del suo riscatto e della sua emancipazione, e lo sostiene incessantemente per tutta l’ultima fase della preparazione e durante il match con il celebre grido “Alì buma ye!”, “Alì uccidilo!”.
Malgrado le consuete spacconate della vigilia, Alì è però cosciente di trovarsi di fronte un avversario davvero pericoloso, imbattuto, che ha in precedenza distrutto sia Frazier che Norton e contro il quale solo 3pugili nei primi 36 incontri hanno terminato il match in piedi.
La tattica di Alì appare suicida: fatti salvi alcuni colpi di alleggerimento, nei primi round Alì si consegna ai tremendi pugni di Foreman, che lo martellano incessantemente. Nei lunghi corpo a corpo, lo sfidante parla continuamente al campione provocandolo, dicendogli di picchiare più forte. Al settimo round Foreman inizia ad apparire piuttosto provato dallo sforzo di centinaia di pugni sferrati e nell’ottavo Alì passa improvvisamente al contrattacco, e con una fulminea combinazione sinistro-destro spedisce ko il campione. Questa vittoria, ottenuta con l’intelligenza e il coraggio contro la forza più brutale, è lo spartiacque della carriera di Alì, che da quel momento non smetterà più di essere adorato dai tifosi di tutto il mondo. Il match di Kinshasa sarà uno spartiacque, ma in negativo, anche per Foreman, che impiegherà un anno per riprendersi dal trauma della sconfitta e che comunque non tornerà ad essere mai più la formidabile macchina da pugni di quegli anni.
Dopo tre difese vittoriose, il 1° ottobre 1975 Alì affronta a Manila, nelle Filippine, l’ultima grande sfida della sua carriera, il terzo match contro Frazier, quello decisivo per stabilire chi sia il più forte tra i due. Ne nascerà un’epica battaglia di 14 riprese, al termine delle quali Eddie Futch, allenatore di Frazier, getterà la spugna, vedendo il suo pugile sfinito e con gli occhi gonfi e chiusi per i pugni subiti. Al vincitore non andrà comunque meglio: Alì uscirà anch’egli provato dal match, arrivando a definirlo come “la cosa più vicina alla morte che io abbia conosciuto”.
Questa durissima difesa del titolo sarà seguita da altre più agevoli, anche se contro Wepner il campione dovrà subire l’onta di un atterramento prima di riprendersi e vincere per ko. L’età continua ad avanzare e le sue condizioni fisiche iniziano a dare precisi segni di decadimento.
Nel 1976 arriva una nuova vittoria su Norton, mentre il 15 febbraio ’77 Alì, ormai lento nei movimenti e nei riflessi, dovrà cedere ai punti al giovane Leon Spinks. Malgrado gli inviti a ritirarsi giungano anche da parte degli stessi uomini del suo entourage, Alì chiede subito la rivincita a Spinks per lavare la sconfitta e per diventare il primo peso massimo capace di riconquistare per tre volte il titolo mondiale. Il secondo match tra i due è valido solo per la corona WBA, visto che quella WBC è stata tolta a Spinks dopo il suo rifiuto di sfidare Norton, si tiene a New Orleans il 15 settembre 1978 e si risolve in una netta vittoria ai punti di Alì, che nel giugno dell’anno successivo annuncia il ritiro.
Purtroppo per lui, Alì non riuscirà a tenere fede ai suoi propositi e tornerà sul ring per altri due incontri, spinto dalla necessità di soldi. L’immensa fortuna guadagnata, infatti, è stata lentamente consumata dalla turbolenta vita sentimentale, con 4 matrimoni (l’ultimo nell’86) e 9 figli, dagli investimenti sbagliati e, soprattutto, dalla sua sconfinata generosità.
Il 2 febbraio 1980 arriva quindi la sfida a Larry Holmes, suo ex sparring partner, persa per abbandono alla decima ripresa, e l’11 novembre dell’81 quella a Trevor Berbick, persa ai punti. Questi ultimi incontri spianeranno definitivamente la strada all’avanzata del morbo di Parkinson, che gli verrà diagnosticato con certezza nel 1984.
Le conseguenze della malattia (rigidità muscolare, tremore degli arti, difficoltà nel parlare) non riescono però a fiaccare la straordinaria energia di Alì, che continuerà a combattere con la medesima intensità le sue battaglie, ricevendo dovunque riconoscimenti, premi, medaglie, perfino lauree honoris causa. Nel 1996 commuove il mondo accendendo come ultimo tedoforo il braciere olimpico ai Giochi di Atlanta, e nella stessa occasione il CIO gli restituisce la medaglia d’oro di Roma gettata a suo tempo nel fiume.
Nel 2001 la sua vita viene raccontata in un film di grande successo, “Alì”, con il ruolo del protagonista affidato a Will Smith, che nell’anteprima verrà scherzosamente bacchettato dall’ex campione: “Non sei abbastanza bello per interpretare me!” gli dirà Alì. Il 2005, infine, vede l’apertura a Louisville del Mohammed Alì Center, il suo museo, testimonianza fedele di un pugile straordinario e di un uomo davvero devoto al bene, all’umanità e alla vita.