È stato un Super Bowl di quelli di cui si dirà “io c’ero”, o almeno “io l’ho visto”, come nel caso di chi scrive. Una partita bellissima, splendida, piena di quel mix di gesti da campioni e di zampate della dea bendata che finiscono per creare qualcosa di assolutamente unico e storico. Sì, stavolta è lecito usare questo termine, storico; come altro definire un match che ha rotto ben quattro record in un’unica notte? Il primo Super Bowl finito ai supplementari, il Super Bowl con la più larga rimonta mai realizzata dai vincitori (25 punti, il record precedente era di 10), oltre ai due record personali di Bill Belichick e Tom Brady, divenuti rispettivamente il coach e il quarterback più vincenti della storia grazie a questo quinto anello.
Gli Atlanta Falcons hanno giocato tre quarti perfetti, difendendo con attenzione encomiabile nelle secondarie e con grande pressione sulla linea (Brady subirà 5 sack, 9 atterramenti e 14 colpi); hanno causato e recuperato un fumble strappando il pallone di mano a Blount (andando in td sul drive seguente), hanno intercettato Brady riportando il pallone in touchdown con Alford dopo una corsa di 82 yard. In più, il loro attacco ha marciato da subito bene, sfruttando tutto il potenziale a disposizione, con Ryan e i suoi ricevitori sugli scudi. Nei primi due quarti hanno concesso solo un field goal da 41 yard ai Patriots, a 5″ dall’intervallo, nel terzo periodo sono arrivati a condurre 28-3 dopo il td di Coleman, e anche quando è arrivato il primo td di New England, sul 28-9, il fatto che il loro kicker, Gostkowski, abbia mancato l’extra point è stato visto da tutti, me compreso, come un segno d’ineluttabile destino.
Invece in quindici minuti è cambiato tutto: Atlanta si è smarrita, subendo un parziale di 31-0 che l’ha forzata prima ai supplementari e poi alla sconfitta, a quel punto divenuta ormai inevitabile, vista la totale inversione del “momentum” agonistico da un lato all’altro del pallone. Brady (che chiuderà con 466 yard lanciate) e i suoi compagni, James White su tutti con 3 td ma anche Amendola, Edelman e Mitchell, sono stati eccezionalmente freddi, tenaci e mai domi, hanno sentito “l’odore del sangue”, ne hanno seguito il flusso ma senza farsi annebbiare dalla foga, guidati in modo insuperabile da chi stava a bordo campo, quel Bill Belichick arrivato più che meritatamente in cima all’Olimpo dei migliori coach di tutti i tempi. C’è chi butta via Super Bowl già vinti, come Quinn domenica e Carroll due anni fa, e chi ne vince di già persi; la piccola/enorme differenza sta tutta qua.
Sono stati anche fortunati i Patriots, com’è normale che sia quando si compiono imprese di questa portata: già nell’azione del primo field goal, nel primo quarto, Martellus Bennett si era ritrovato in mano un completo da un fumble vagante, ma è stato soprattutto nel quarto periodo che la dea bendata ha scelto di stare dalla parte dei Pats. Prima con una safety a cui Brady sfugge per una frazione di secondo, gettando via il pallone un attimo prima di subire il placcaggio nella sua end zone: lì, a 3′ 30″ dalla fine, sarebbero arrivati altri 2 punti per Atlanta e cambio di possesso, quindi fine dei giochi. L’episodio principe arriva però un minuto dopo, nel corso dello stesso drive, quando Julian Edelman riesce a completare una ricezione dopo che il pallone è rimbalzato per due volte sul corpo dei difensori intorno a lui, senza mai toccare terra. Episodio su cui va in tilt anche la panchina di Atlanta, che brucia il suo ultimo timeout per chiedere un replay senza senso, su un’azione tanto rocambolesca quanto chiara nella chiamata arbitrale. In quel momento eravamo ancora sul 28-20 per i Falcons, con solo 2′ 28″ da giocare, ma la sensazione di chi guardava era cambiata nettamente: ora era chiaro che i Patriots avrebbero finito per vincere. Hanno pareggiato a 57″ dalla fine, hanno vinto il sorteggio, hanno attaccato per primi e sono arrivati quasi in carrozza al touchdown della vittoria, segnato ancora da White, per la cronaca, in completa esaltazione agonistica loro, e in totale sfinimento la difesa di Atlanta.
34-28 per i Patriots, quindi. E siccome Julio Velasco diceva che “chi vince festeggia e chi perde spiega”, lascio New England alle sue parate tra ali di folla e provo a spiegare perché Atlanta ha perso in un modo così incredibile una partita, e che partita, già vinta. Al di là della retorica gladiatoria sugli occhi di Brady e le sciocchezze superstiziose sugli MVP mai vincenti al Super Bowl, Atlanta ha perso per due motivi precisi, uno strategico e l’altro fisico. Il primo è imputabile al suo head coach, Dan Quinn, e al suo (già ex) offensive coordinator, Kyle Shanahan, entrambi responsabili di chiamate troppo superficiali nel drive decisivo dei Falcons nel quarto periodo. Quinn, come già detto, ha sprecato i timeout, mentre Shanahan, sul 28-20 con la palla in mano e meno di 6′ da giocare, ha scelto di far lanciare Ryan per provare ad arrivare al field goal anziché far correre Freeman, che magari al field goal non ci sarebbe arrivato ma che in compenso avrebbe bruciato almeno 90 secondi dal cronometro o fatto consumare tutti i timeout ai Patriots. Invece Atlanta è stata ributtata indietro da un sack di Flowers ed è stata costretta al punt, lasciando la palla a Brady sì in una pessima posizione di partenza ma con ancora 2 timeout più il 2-minutes warning e 3 minuti e mezzo a disposizione per trovare la segnatura del pareggio, cosa puntualmente verificatasi.
La ragione fisica, invece, è figlia di un dato spesso trascurato: il tempo di possesso della palla. New England ha avuto il pallone per 40′ 31″, a fronte dei soli 23’27” di Atlanta. Già nel post di presentazione lo avevamo indicato come uno dei possibili fattori che, se ben gestito, avrebbe lavorato in favore dei Patriots, un fattore che ha pagato sul lungo termine, tenendo fuori per molto tempo l’attacco atomico dei Falcons e, di riflesso, sfinendone la difesa, che infatti è arrivata in riserva al momento chiave della partita, seconda parte del quarto periodo e overtime. Questo è stato, a mio parere, il vero capolavoro di Belichick: è stato freddo a non farsi prendere dal panico quando la nave imbarcava acqua, magari iniziando a chiamare giocate profonde per provare a rimontare subito. Invece ha continuato a far macinare lunghi drive al suo attacco, magari anche inconcludenti ma che freddavano gli attaccanti avversari, fermi in panchina, e contemporaneamente logoravano i difensori in campo. Belichick ha creduto fino in fondo al suo game plan, anche quando tutto sembrava dargli torto, e alla fine la sua fede è stata premiata. Ed è lui, ancora più di Brady, il vero Greatest of All Times.