Ricordo bene una sera, nell’ottobre del 2005 a casa del mio fraterno amico nonché grande romanista Renato, la diretta in cui Francesco Totti a San Siro contro l’Inter segna quello che – ad opinione di molti, compreso chi scrive – fu il gol più bello della sua carriera: una finta di corpo che disorienta Materazzi e quel pallonetto lieve e di una precisione chirurgica che va a depositarsi dentro la porta avversaria.
Anche se sono tifoso del Toro e sono diventato simpatizzante della Roma grazie a questo giocatore, non ero certo nuovo a vederlo distribuire giocate strepitose e segnare gol splendidi, dato che mi ero messo a frequentare lo Stadio Olimpico anche e soprattutto per non ripetere lo stesso errore che feci con Maradona, cioè di non essere andato a vederlo giocare dal vivo; figurarsi il mio amico che conosce a memoria ogni partita in cui Totti ha dato il meglio di sé, eppure davanti a quel gol a San Siro ( in cui fece alzare tutto lo stadio, tifosi avversari compresi) io e lui ci guardammo perplessi senza esultare dicendoci “ma che ha fatto?”. Eravamo increduli perché tutto si era svolto con la stessa leggerezza e la stessa poesia con cui una foglia si stacca dal ramo e dolcemente si adagia al suolo proprio quando uno si aspetta che arrivi una raffica di mitra ad abbattere l’albero stesso, ottenendo lo stesso risultato ma a cui va aggiunta una certa magnificenza. Abituati ad un calcio sempre più frenetico dove la percussione è indice di forza e di corrosività, ci eravamo trovati davanti ad un calciatore che non aveva bisogno di muoversi in modo convulso, perché il suo pensiero, il suo cervello calcistico va al triplo della velocità di tutti gli altri, la stessa forma mentis di Roger Federer quando ancora era in grado di annientare i suoi avversari che grondavano sudore, forza, agonismo e frenesia ma a parte questo poco altro, è la classe con la c maiuscola, quell’elemento misterioso che o lo si possiede, ci si nasce, oppure non c’è niente da fare. Con il duro lavoro si può supplire alla maggior parte delle proprie lacune, ma non a tutte, e la classe è una di queste.
Spesso si tende ad equivocare l’Epica, o quanto meno a non averne una percezione univoca: talvolta si crede che l’eroe sia invincibile e molto vicino alla perfezione, come se fosse l’emanazione stessa di un Dio, ma non è così. Ce lo insegnano alcune delle figure più famose dell’Epica stessa: Achille, irascibile, capriccioso e tutt’altro che simpatico sebbene affascinante; Odisseo: bugiardo patentato che non esita a farsi scrupoli davanti al proprio obiettivo, che sia nel non voler partire per la guerra, a Troia o quando al suo ritorno ad Itaca massacra senza pietà i Proci, per non parlare di Orlando e della sua follia seminata e poi sublimata.
Il pubblico calcistico pagante e perbenista odierno crede di amare l’eroe epico ma in realtà vuole i supereroi: Cristiano Ronaldo, Messi, Neymar, ragazzi sorridenti e a posto che si sacrificano e vincono tutto, che non lasciano nemmeno le briciole agli avversari perché la vita è dura per tutti, è breve e bisogna prendere il più possibile, pensare a sé stessi perché altrimenti non ci pensa nessun’altro a noi. I supereroi vincono sempre, hanno qualche punto debole, ma raramente questi li destabilizza o li mette di fronte alla sconfitta e, se capita di perdere, c’è subito un’altra vittoria dietro l’angolo a rincuorare e a far dimenticare quello che viene visto come un incidente di percorso. E uno degli sbagli della società odierna è di cercare di farci credere che un giorno diventeremo delle star ricche, famose e perennemente felici.
Poi c’è l’eroe epico: uno che decide di non sradicarsi dalla propria terra e dai propri sentimenti pur sapendo che la vittoria (punto cardine nel giuoco del Calcio) non arriverà quasi mai, che difficilmente i compagni saranno adeguati alle sue capacità e che spesso e volentieri i suoi lati umani verranno messi all’indice (vero sigg.ri Poulsen e Balotelli?) perché bisogna mostrarsi senza macchie, almeno in pubblico, poi nel privato si faccia quello che si vuole. Uno che rifiuterà la maglia del club di Calcio più importante del mondo nel quale le sue braccia si sarebbero indolenzite a forza di alzare trofei, uno che di fronte alla scelta se essere Achille o Ettore, sceglie di essere il secondo, più debole e destinato ad un finale tutt’altro che vincente, soltanto perché ascolta il suo sentimento ed è fedele al valore della propria appartenenza.
Sfortunatamente la mia conoscenza dei dati calcistici è troppo scarsa per poterlo affermare con certezza, ma non so quanti giocatori ci siano stati nella Storia di questo sport così conosciuti ed amati in ogni angolo del pianeta, da tifosi e colleghi e che allo stesso tempo abbiano vinto così poco; il paradosso (ma neanche troppo se si conosce un po’ l’Italia e gli italiani) è che Francesco Totti all’estero è rispettato molto di più: lo dicono ancora oggi calciatori come Modric, Messi o Sergio Ramos.
In Italia no, vogliamo il buonismo, il politicamente corretto, che la superficie sia lucente e ben levigata, preferiamo parlare di giocatori finiti da tempo (o nemmeno incominciati) solo perché i loro procuratori hanno un potere di ripercussione sui media spaventoso e al minimo scivolone (perché è un essere umano ma non è un ipocrita) da parte di chi non è gradito, eccoli pronti a sparare all’impazzata.
Quante volte il sottoscritto tifoso del Torino si è ritrovato a svolazzare in mezzo all’etere romanista in questi quindici anni innervosito nell’ascoltare diversi tifosi della Roma che criticavano il proprio capitano, il più grande giocatore della loro storia, uno dei più grandi giocatori italiani di tutti tempi. Com’è possibile far finta di non riconoscere ciò che luccica davanti ai propri occhi? Forse Kant ha generato dei mostri quando ha scritto di percezione personale della realtà? Com’è possibile negare che la pioggia bagna o che il sole scaldi? Qualcuno lo sentirà di più, qualcun altro di meno ma bisogna comprendere che non esiste il brutto e il bello, esiste la verità, certamente difficile da trovare ma – come disse Einstein – una falsità è spesso facile da riconoscere. Cosa dovrebbero dire per esempio i tifosi di una squadra di grande tradizione come il Torino, schiacciata negli ultimi decenni (sappiamo da chi) da manovre di smembramento di ogni tipo in cui le ultime tracce di Identità Storica viste in mezzo al campo avevano il volto di Marco Ferrante e Antonino Asta ormai diversi anni fa? E’ che Francesco Totti è l’Identità Storica della Roma, l’eroe epico, ma tocca che ci adeguiamo tutti quanti perché conta vincere, contano i trofei da chiudere in bacheca non le storie che si raccontano intorno al focolare, che ci facciamo con quelle? Mica siamo ai tempi di Omero! Non abbiamo bisogno di guardare le stelle per capire come sono fatte, basta un computer o uno smartphone, ce lo raccontano questi. Ma nessuna diavoleria tecnologica (per ora) potrà trasmetterti l’odore che c’è dentro S. Pietro o la sensazione che dà toccare la base della torre Eiffel. Francesco Totti rappresenta nel calcio il contrario del virtuale, quella genuinità, nel bene e nel male, che è sempre di più merce rara e che tenderà a sparire nel corso degli anni.
Chi scrive lo ha visto giocare dal vivo per la prima volta in quel Roma-Juventus 4-0 del 2004, il massimo del godimento per un esule piemontese che è avverso ai colori bianconeri proprio come i tifosi romanisti e che, sebbene fosse straniero rispetto a quella tifoseria e alla curva giallorossa, si è sempre sentito a casa ogni volta in cui si è trovato in quel contesto. Quella fu una partita dove l’avversario venne stritolato grazie soprattutto a Totti e a Cassano… e pensare che quest’ultimo se avesse avuto un po’ più di buon senso avrebbe potuto essere il perfetto Efestione per il capitano della Roma. E da quel punto di partenza i ricordi si moltiplicano: vederlo spostare intere difese, sbaragliare difensori che sbattevano contro di lui, suggerire passaggi incredibili senza aver bisogno di guardare perché il campo sta sul palmo della sua mano.
Immalinconisce un po’ sapere che prima o poi questo signore dovrà smettere di giocare a pallone e che con lui non se ne andrà solo uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi ma anche un certo modo di intendere il calcio, quello epico, fatto di valori che vanno al di là del denaro, della fama o dei trofei vinti.
Ma intanto c’è il presente, un presente in cui questo giocatore, a 40 anni è ancora in grado di ribaltare un risultato e di zittire le ancora numerose ed impertinenti critiche: un vecchio adagio dice che è prerogativa dello stolto vedere quando l’Imperatore è nudo, ma lo stolto rimane stolto e l’Imperatore rimane Imperatore.