Anche se il post parla di Serena Williams, mi sembrava opportuno che la foto di copertina ritraesse Naomi Osaka, la vincitrice con pieno merito (è opportuno ricordarlo) degli US Open femminili 2018. Mi piaceva partire dalla fine, cioè da una ventenne che ha scritto la storia del tennis del suo paese vincendo uno Slam contro il suo idolo d’infanzia, visto che tutto il pandemonio scatenato dalla sua avversaria ha fatto passare in molti casi in secondo piano lo straordinario risultato sportivo a cui avevamo assistito.
I protagonisti della vicenda sono due, il giudice di sedia Carlos Ramos e Serena Williams, i “casus belli” contro la ex numero uno del mondo sono invece stati tre: il warning per coaching ricevuto dalla tribuna al termine del primo set, il penalty point ricevuto per aver spaccato la racchetta in terra e, dulcis in fundo, il penalty game subito per aver gridato all’arbitro “sei un ladro”, episodio che ha dato la stura definitiva a una sceneggiata epocale sul campo, con tanto di chiamata del giudice arbitro e lacrime di disperazione per una partita ormai scivolata via. Una scena brutta quanto isterica e inutile, che ha avuto il discutibile merito di far passare alla storia questa finale per il motivo sbagliato: non la consacrazione di una splendida nuova giocatrice, quanto le accuse di sessismo gettate sul piatto dalla Williams.
Accuse del tutto fuori luogo, a mio parere, per più di una ragione. Innanzitutto, i numeri ci dicono che, anche limitatamente a questa edizione degli US Open, le sanzioni comminate ai maschi sono state 23 contro solo 9 alle donne, compresa una multa di 17 mila dollari presa proprio dalla Williams nel corso del torneo. Anche in passato, gli US Open sono stati tutt’altro che tolleranti verso le sfuriate dei giocatori, a partire dalle storiche sanzioni a Connors e McEnroe fino all’espulsione di Fabio Fognini avvenuta lo scorso anno.
Ragione numero due: Serena Williams non è affatto nuova a queste sceneggiate, specialmente sul campo “di casa” di Flushing Meadows. Gli annali riportano feroci litigate con i giudici già nel 2004 contro Jennifer Capriati, poi nel 2009 con Kim Clijsters, poi ancora nella finale 2011 con Samantha Stosur ed infine nella semifinale 2015 perduta contro la nostra Roberta Vinci. Epocale fu la vicenda del 2009, quando Serena, sotto 4-6, 5-6 e 15-30, si sentì chiamare un fallo di piede mentre serviva la seconda palla (quindi doppio fallo e 15-40). La Williams minacciò la giudice di linea di farle ingoiare la pallina, l’arbitro la punì con un penalty point e la partita finì lì, fatto salvo lo strascico degli 82.500 dollari di multa che Serena dovette pagare.
Terzo ed ultimo motivo di torto: indipendentemente dal metro di giudizio globale applicato dalle centinaia di arbitri dei circuiti ATP e WTA, tutte e tre le sanzioni comminate dall’arbitro a Serena Williams sono sacrosante. Il coaching è stato ammesso perfino dal suo allenatore, la racchetta spaccata l’abbiamo vista tutti e l’insulto è stato sentito in mondovisione. Difficile, se non impossibile, per l’arbitro girarsi dall’altra parte fingendo di non aver visto o sentito, e irrilevante l’elenco di “se” e “ma” seguiti all’accusa di sessismo. Quelli erano tre comportamenti da sanzionare, indipendentemente da quello che facciano mediamente gli altri arbitri del circuito. Facendo un paragone calcistico, sarebbe come se io commettessi un fallo di mano in area e, dopo il rigore contro, protestassi con l’arbitro perché negli ultimi tempi i suoi colleghi non ne fischiavano poi tanti di falli simili.
L’impressione filtrata attraverso lo schermo della tv è stata quella di una superstar risvegliata bruscamente dal suo delirio di onnipotenza, una star cui nessuno può dire come giocare e come comportarsi, perché la sua fama (sportiva, economica, mediatica, pubblicitaria, social) non la rende più parte del gioco ma la rende bensì l’incarnazione del gioco stesso. “Mi devi delle scuse! – continuava a ripetere all’arbitro – Ho una bambina a casa, come pensi che possa barare? Mi devi delle scuse!”. In realtà, le scuse dovrebbe rivolgerle lei a tutti gli amanti del bel tennis (e quindi anche di lei) e a Naomi Osaka, composta e attonita con la coppa in mano, che certo avrebbe immaginato ben diversa la sua prima vittoria Slam. Ma si sa, gli idoli, visti da vicino, ogni tanto sono una delusione.
Concordo in pieno con il tuo punto di vista. Complimenti.