Tutto comincia (anzi, ricomincia) il 25 novembre 1892, giorno in cui, durante un’importante assemblea a tema sportivo all’università della Sorbona di Parigi, Pierre de Coubertin propone ufficialmente la ripresa in chiave moderna dei Giochi Olimpici. De Coubertin è un barone francese di lontane origini italiane, grande appassionato e studioso di pedagogia, con particolare riferimento al ruolo formativo dello sport in senso fisico, morale e sociale. Due anni dopo, il 16 giugno 1894 e sempre a Parigi, 79 rappresentanti di società sportive di 12 diverse nazioni sono riuniti in un congresso internazionale incentrato sulla distinzione tra dilettantismo e professionismo. All’ottavo punto dell’ordine del giorno, però, è prevista una discussione sulla possibilità di reintrodurre i Giochi. Il 23 giugno, ultimo giorno del congresso, i delegati sottoscrivono l’impegno a riprendere le Olimpiadi, affidandone l’organizzazione a un ente specifico, il CIO, Comitato Olimpico Internazionale, di cui lo stesso De Coubertin diviene presidente. Manterrà questa carica quasi ininterrottamente fino al 1925, divenendone successivamente presidente onorario fino alla sua morte, avvenuta a Ginevra nel 1937. Come tributo al suo generoso ed instancabile impegno verso le Olimpiadi, il suo cuore è custodito in una stele di marmo sulla piana di Olimpia.
Pur animato dalle migliori intenzioni, il neonato Comitato Olimpico deve affrontare problemi di non poco conto prima di poter far ripartire la storia a cinque cerchi. Quattro in particolare sono le questioni sul tavolo: la cadenza dei Giochi, la continuità rispetto alla tradizione classica, l’annosa questione tra atleti dilettanti e professionisti e la promozione dei Giochi presso tutti i Paesi del mondo per invitarli a partecipare. Quanto al luogo di svolgimento della prima edizione, una volta scartate le ipotesi di Parigi (per legarla all’Esposizione Internazionale in programma nel 1900) e Stoccolma, la scelta cade inevitabilmente sulla capitale della nazione dove tutto ha avuto inizio, Atene.
De Coubertin guida il CIO nella direzione che egli considera più rispettosa della tradizione classica: svolgimento quadriennale, alternanza delle sedi, partecipazione limitata ai dilettanti ed esclusione delle donne dalle competizioni. Come ben sappiamo, solo i primi due punti rimarranno immutati nel tempo, mentre i successivi verranno ben presto resi obsoleti dal moderno concetto di pratica sportiva e dall’emancipazione femminile. Per molti anni il barone De Coubertin verrà considerato, a torto, un fanatico della pratica dilettantistica a dispetto di quella professionistica dello sport; tutto parte dalla sua frase più celebre, “l’importante è partecipare, non vincere”, a lungo intesa come una pietra tombale sull’agonismo finalizzato al risultato e ai susseguenti guadagni, elementi tipici del professionismo. De Coubertin, da uomo illuminato quale è, saprà invece evolvere il proprio pensiero, giungendo a un pragmatismo che lo condurrà a definire superata e antistorica la concezione di dilettante di tipo inglese, di origine vittoriana. Dovranno comunque trascorrere molti anni prima che il buon senso elimini l’ipocrisia dilettantistica dalle Olimpiadi, così come occorrerà del tempo prima che i Giochi vengano aperti ufficialmente alle donne. A Parigi nel 1900 vengono ammesse solo le tenniste, seguite quattro anni dopo a Saint Louis dalle tiratrici con l’arco; per il nuoto femminile bisognerà attendere Stoccolma 1912, addirittura Amsterdam 1928 per ginnastica e atletica leggera. Ancor più lungo (1975 e 1981) sarà il tempo necessario perché il CIO inizi a risolvere l’anacronistica esclusione dei professionisti dalle competizioni olimpiche, demandando a ciascuna Federazione le regole di eleggibilità olimpica dei propri atleti; nel frattempo saranno in molti a farne le spese, vedendosi revocare medaglie e titoli solo per aver percepito denaro in qualche gara casalinga. Surreale, ad esempio, il caso dello statunitense Jim Thorpe, che a Stoccolma 1912 vince con distacchi siderali sia il pentathlon che il decathlon, ma che l’anno seguente si vede togliere entrambi gli ori per aver percepito 15 dollari a settimana, anni addietro, per giocare in una lega minore di baseball!
Sempre da un’idea del barone De Coubertin nasce, nel 1914, il simbolo olimpico a 5 cerchi intrecciati in rappresentanza dei 5 continenti (Europa, Asia, America, Africa e Oceania) e non, come vorrebbe una leggenda metropolitana, dei cinque colori componenti tutte le bandiere del mondo. I 5 cerchi vengono utilizzati per la prima volta ad Anversa nel 1920, la stessa edizione in cui viene letto per la prima volta il giuramento dell’atleta, scritto anch’esso da De Coubertin. Nel corso degli anni il testo subirà numerose modifiche, la prima delle quali letta a Roma 1960 da Adolfo Consolini, fino alla sua versione attuale, letta per la prima volta a Sydney 2000: “A nome di tutti gli atleti prometto che parteciperemo ai Giochi rispettando e osservando le norme che li regolano, impegnandoci verso uno sport senza doping e senza droghe, in autentico spirito di sportività, per la gloria dello sport e l’onore delle nostre squadre”. L’inno olimpico, eseguito già ad Atene 1896 e musicato da Spyros Samaras su testo di Kostis Palamas, diviene ufficiale solo nel 1958.
Storia diversa, invece, per un altro dei simboli olimpici universalmente più conosciuti: la fiaccola. Approvata nella sessione del CIO del 1934 su proposta di Carl Diem, segretario generale dei Giochi di Berlino 1936 (e degli scavi che riporteranno alla luce l’antico stadio di Olimpia), viene accesa per la prima volta proprio in quella edizione per portare il fuoco olimpico, passando con una lunghissima staffetta da un tedoforo all’altro, da Olimpia fino alla città sede dei Giochi, dove accende il braciere, posto nel punto più alto dello stadio, che viene poi spento solo al termine della manifestazione.